Nel diritto penale la donna è stata sempre considerata come oggetto della legislazione maschile e considerata incapace di rappresentare nessun altro che se stessa. Si tratta ora di rivendicare un nuovo diritto per le donne che sia non tanto “un diritto diverso”, ma “un diritto di genere”

Marina Graziosi

Il problema dell’uguaglianza, e quello dei diritti ad essa connessi, sembra essersi posto oggi in modo nuovo al centro di un ampio dibattito. Molte delle domande che vengono avanzate riguardano da un lato il senso complessivo della cittadinanza e le possibilità di azionarla da parte di soggetti considerati “deboli”, dall’altro i conflitti creati dall’emergere di tali soggetti e le risposte che ad essi si danno.

Si deve soprattutto alla riflessione femminile se agli approcci più classici al tema si è aggiunto un diverso punto di vista, quello della differenza di genere, che sembra aver scardinato molte antiche certezze. Il pensiero delle donne si è mosso infatti in questi anni su percorsi teorici assai fecondi e costruttivi, nell’intento di chiarire non solo tutti quegli elementi che rendono la differenza di genere non assimilabile alle altre, ma anche di avanzare delle proposte (1).

Uno dei termini del problema è naturalmente il diritto. E la possibilità che all’interno di esso si renda visibile – in senso nuovo – la differenza. Ma in quali forme, in che modo è possibile realizzare il senso nuovo che a un diritto di genere vorrebbe darsi? E quali rischi può comportare un simile approccio?

Qualche risposta alle domande di oggi può forse offrirla una ricognizione sommaria del passato, alla ricerca non solo delle tracce giuridiche della “servitù delle donne”, ma anche di segni che ne illuminino la complessità ed il senso. L’esclusione delle donne, infatti, sembra essere non solo la più antica e la più duratura nel tempo, ma anche quella il cui disegno e le cui motivazioni sono iscritte più chiaramente nel diritto. È possibile, quindi, per ricostruirne la storia, far riferimento ad un corpus già dato e articolato di norme, di concetti e costruzioni dottrinarie, anche volendone trascurare l’implementazione.

Molteplici, naturalmente, sono i piani in cui il diritto misura la sua forza. Il suo compito e il suo concreto esercizio non sono solo quelli di governo e regolazione dei conflitti, di costruzione di limiti, ma anche di produzione e riproduzione del simbolico, attraverso gli universi linguistico-normativi cui il sociale deve attingere. La norma, in questo modo, pur regolando un determinato ambito, si riverbera necessariamente anche sul resto. Può essere interessante, perciò, dare senso alle forme, spesso solo simboliche, della differenziazione del femminile nei rituali della giustizia e della pena che ricorrono nella nostra storia passata. Nel diritto stesso possono poi trovarsi anche le tracce di importanti contraddizioni, rispetto alla soggezione femminile, che testimoniano della capacità di erosione da parte delle donne del potere patriarcale anche attraverso lo strumento giuridico.

Contrariamente a quanto spesso si pensa, legislatori e giuristi hanno sempre dato senso e rilevanza, anche nel passato più remoto, alla presenza femminile nella società. Una presenza da governare saldamente per regolare, senza problemi, un assetto che si voleva di impronta patriarcale. Nel passato i giuristi non hanno affatto ignorato l’esistenza di due generi nel mondo che disciplinavano. Se questo può essere accaduto per i diritti politici di cittadinanza, in cui – come è stato giustamente osservato (2) – l’universale neutro delle dichiarazioni dei diritti ha, di fatto, significato solo il maschile, ciò non sembra riguardare altri importanti ambiti giuridici, nei quali la consapevolezza della presenza femminile ha dato vita a regole precise e minuziose volte principalmente, se non esclusivamente, alla tutela e al mantenimento di una struttura patriarcale. In altri termini, l’esclusione o “dimenticanza” del femminile – sussunto nell’universale “uomo” – ha precluso alle donne, nel modello della democrazia moderna, una sfera di poteri, prima di tutto quello politico, grazie alla definizione e al concreto disegno sul maschile dei diritti fondamentali dell’individuo. Nel campo del diritto civile e del diritto penale, invece, la presenza regolata del femminile ha assunto il senso da un lato di una limitazione della sfera delle libertà, dall’altro di una regolazione degli specifici doveri delle donne.

Come si sa, nel diritto civile e in quello pubblico, è stata in atto in vari modi almeno fino al primo decennio del nostro secolo – e per alcuni ambiti ancora oltre – una sorta di tutela delle donne che impediva loro, di fatto, di esercitare una piena cittadinanza. Esclusione dal diritto di voto e dal diritto di amministrare, in modo del tutto autonomo, il proprio patrimonio, insieme alla impossibilità di accesso pieno allo studio e all’esercizio di alcune importanti carriere, facevano fino ad allora della donna una cittadina minorata, esclusa in sostanza dalla sfera pubblica, e vincolata, da subalterna, a quella privata.

È forse meno noto però che nel passato venissero non solo praticati, ma anche teorizzati modi diversi di punire gli uomini e le donne. E che queste disuguaglianze – anche nella stessa costruzione di alcuni reati – presenti in Europa, in vario modo, secondo le diverse legislazioni, per tutto il corso dell’ancien régime, siano state spesso riproposte da importanti criminalisti anche nel nostro secolo.

Qualsiasi ipotesi di differenziazione penale tra soggetti che si suppongano capaci di intendere e di volere ci appare oggi estranea ed ingiusta. Forse per questo motivo si è portati a non considerare e a rimuovere ciò che per secoli è stata una realtà. Una realtà, si badi, mai del tutto esplicitata in modo chiaro, ma da rintracciare, seguendo strade secondarie, tra mille difficoltà nelle pieghe del discorso giuridico. Ad esempio nelle raccomandazioni ai giudici, espresse comunque in modo generico, di tener conto tra gli altri di un elemento di fatto, quello appunto del sesso. O di particolari forme, spesso dettate dalla cautela, talvolta invece tese alla più rigida esemplarità, nell’applicazione della pena ad un condannato di sesso femminile.

Non intendo qui, anche se potrebbe essere un percorso molto interessante, dare conto di tutte le tracce esplicite e implicite di differenziazione che si possono reperire nel passato e identificarne le persistenze nel diritto del presente, quanto cercare di dare un senso alla ratio che ha guidato chi le ha costruite. Ciò che è sorprendente è infatti la sostanziale omogeneità che può ritrovarsi, a tale riguardo, in società ed epoche anche lontane. Gli usi più antichi infatti si sedimentano ed operano come fonti di legittimazione, accreditando tesi che si vorrebbero invece pensate e praticate ab aeterno.

Penale, pubblico e civile appaiono, inoltre, nel caso delle donne, sia pur contraddittoriamente connessi: discriminazioni e minorazioni, presenti in questi differenti campi, per secoli si sono accreditate reciprocamente riferendosi le une alle altre con procedimenti teorici di tipo circolare.

Il punto di vista che qui propongo, quello di un’analisi della dottrina penalistica in una prospettiva storica, è apparentemente anomalo, ma sicuramente produttivo. Il diritto penale offre infatti un doppio vantaggio: da un lato esso è più trasparente perché il più lontano, nella nostra coscienza moderna ed ugualitaria, da ogni ipotesi di differenziazione: siamo perciò portati a considerarlo come campo tutto particolare, segnato da sempre dai confini invalicabili della perfetta uguaglianza. Dall’altro lato, esso sembra rivelare, in modo più chiaro, le strutture simboliche che hanno guidato il legislatore, per essere invece più vicino – come cercherò di mostrare più avanti – a quei complessi territori in cui mito e rito sembrano governare la legge.

Una ricostruzione di questo tipo, non può costringersi, naturalmente, entro i limiti di una stretta periodizzazione. Pur privilegiando, in quanto particolarmente significative, le teorizzazioni dei criminalisti del secolo scorso, ho preferito – in una prospettiva di lungo periodo – seguire un criterio tematico identificando i filoni più importanti. Il primo filone riguarda la questione dell’imputabilità penale delle donne, il secondo le differenziazioni nella pena.

1. L’imputabilità delle donne

Fin dall’inizio del secolo scorso, e poi nelle teorizzazioni della Scuola positiva di diritto penale – quando ormai sembrano praticamente scomparse dalle legislazioni continentali le differenze legate al sesso – viene riproposta da più parti l’idea di una peculiarità della devianza femminile, che richiederebbe perciò, in armonia con il diritto civile, una differente considerazione, in base anche alle contemporanee acquisizioni scientifiche nel campo della fisiologia.

La presenza femminile e la sua regolazione nel diritto penale avevano, fino ad allora, interessato i giuristi prevalentemente sotto due aspetti: da una parte quello del controllo della sfera della sessualità nella definizione e costruzione di reati come quelli di adulterio, aborto, stupro, seduzione, o infanticidio, cioè reati specificamente connotati al femminile come sesso; dall’altra quello della necessità di porre un limite – e la valenza puramente simbolica di questo limite è ancora tutta da indagare – nell’infliggere pene ad un corpo femminile.

La questione dell’imputabilità femminile invece era stata riproposta e più volte messa in discussione anche da importanti giuristi, – si pensi ad esempio a Carmignani – che avevano ipotizzato per le donne una attenuazione, diminuzione o addirittura esclusione della imputabilità richiamando l’antico principio della infirmitas sexus, l’impedimento dovuto al sesso (3).

In questo periodo la questione si lega, come si è detto, alle nascenti elaborazioni “scientifiche” sull’inferiorità naturale della donna, e si connette al più generale dibattito su libero arbitrio e imputabilità (4).

Sembrerebbe che l’affermazione dell’uguaglianza di fronte alla legge, che trova la sua origine nelle prime dichiarazioni dei diritti, provochi ad un certo punto, con l’emergere delle rivendicazioni femminili, l’onere della giustificazione della persistente ideologia della disuguaglianza e delle sue conseguenze pratiche. Se per lunghi secoli la semplice evocazione del concetto generico e assai flessibile di infirmitas sexus – ad indicare, ad ogni occasione, una sorta di perpetua minorazione delle donne – era sembrata sufficiente, in questa fase si ritiene necessario invece rafforzarne la struttura.

Ed è per questo che la riflessione giuridica, approfondisce e tematizza la questione del corpo femminile. Si vuole che questo incarni, infatti, una innegabile differenza che sarebbe contro natura voler colmare o cancellare: per mezzo dell’educazione, ad esempio – grande tema dell’emancipazionismo settecentesco – o peggio ancora attraverso la parità dei diritti.

Gli interrogativi che i giuristi cominciano a porsi in questa fase, sono connessi da un lato, appunto alla fisiologia del corpo femminile e alle sue implicazioni emotive e comportamentali, dall’altro alle capacità di giudizio e di raziocinio delle donne e alla loro incidenza sulla comprensione e conoscenza delle norme. Le donne, ci si chiede, sono nella loro capacità di delinquere uguali agli uomini, o non sono forse più facilmente assimilabili, per la loro debolezza ed immaturità, ai vecchi, ai minori, ai pazzi? Nel loro sviluppo personale non restano forse in un perpetuo stato intermedio tra il fanciullo e l’uomo adulto? E l’accertata maggiore sensibilità e complessità dell’animo femminile rende le donne che delinquono più o meno colpevoli? Quali sono i crimini tipici “del sesso femminile”? La pena, infine, deve essere inflitta alle donne negli stessi modi adottati per punire reati commessi da maschi?

Su queste domande gli studiosi si dividono tra quanti sostengono la piena uguaglianza giuridica tra uomini e donne in campo penale – fatte salve le differenze che sussistono nel civile, considerate universalmente giuste e quasi ovvie perché dettate dalle convenienze sociali, come garanzia dell’ordine delle famiglie – e quanti invece propongono per le donne una minore o diversa imputabilità, coerentemente, del resto, con il diritto civile che ne limitava la capacità d’agire e con il diritto pubblico che ne negava l’elettorato attivo e passivo. Una posizione intermedia, sarà quella più prudente di chi, diffidando dell’ipotesi di un doppio diritto penale, proponeva per le donne una semplice attenuazione delle pene.

2. Razionalità, libero arbitrio, imputabilità

Un aspetto che rende particolarmente interessante il paradigma giuridico della diversità / inferiorità femminile che si svilupperà nel corso dell’Ottocento, è che esso, anticipando e connettendosi al paradigma scientifico della inferiorità naturale delle donne – quale si verrà delineando nelle sistematizzazioni del pensiero positivista – sembra ritrovare, rinnovandole, le antiche argomentazioni alla base della subalternità femminile, prima fra tutte quella della scarsa razionalità delle donne. Entrambi i paradigmi – giuridico e scientifico – avranno naturalmente un grandissimo peso nella costruzione di un modello di donna cui sarà considerato normale adeguarsi e patologico discostarsi e che perdurerà anche nel Novecento.

Guardando al secolo scorso, quando si tratta di decifrare la legittimazione giuridica della disuguaglianza delle donne, la costruzione stessa della differenza dei sessi come disuguaglianza, rivela qualcosa di arcaico che sembra persistere al di là di ogni possibile modernizzazione. E il continuo, anacronistico, ricorso a una generica tradizione antica, trova perciò una sua naturale giustificazione.

È infatti nelle rappresentazioni ottocentesche del “femminile” che si attribuisce a questo genere una sorta di perenne arcaicità. Quest’idea, riconducibile peraltro alla filosofia dei lumi, trova però la sua più larga diffusione – anche a livello di senso comune – prevalentemente nel corso dell’Ottocento.

Quando si teorizza sulle donne, sul genere femminile, e sul mondo immutabile di questo, segnato da eventi naturali per sempre e da sempre uguali a se stessi, si presuppone e insieme si costruisce il paradigma di un’umanità al femminile costantemente e ciclicamente identica, estranea anche ai mutamenti storici. Ciò sembra escludere la donna dall’idea di progresso lineare, dall’idea-forza che segna il secolo e che con il positivismo assume il senso di una legge necessaria alla base del processo storico (5) per relegarla, come umanità necessariamente involuta, nella spirale della sua eterna ciclicità. Sono gli esseri umani di sesso maschile che portano avanti il progresso aprendo e sperimentando nuove vie che conducono verso la modernità; il femminile vivendo dentro la scansione naturale di eventi senza tempo, deve ritornare, attraverso i passaggi obbligati del biologico, sempre allo stesso punto, fuori dal “moderno” che sembra includere quindi, in tal modo, solo il maschile.

Il modello di femminilità che si suppone normale, cui è giusto che le donne si conformino è prima di tutto un modello materno, la donna, infatti, prima di ogni altra cosa è madre, e nella maternità si esprime e si realizza gran parte del destino femminile. Sembra addirittura che negli “organi della maternità” si spenda gran parte dell’energia possibile, che perciò la forza intellettuale e la razionalità delle donne debbano necessariamente esserne minorate. Ma anche le donne che non sono madri soffrono ugualmente questo tipo di minorazione, e in aggiunta, corrono il pericolo che gli organi della riproduzione, rimanendo inattivi, procurino dei pericolosi “ristagni” che si possono riverberare sull’umore, e quindi sulle capacità raziocinanti.

Al di là delle differenti valutazioni sul grado della responsabilità e sulla conseguente imputabilità, sembra generalmente condivisa l’idea che il sesso (e dicendo “sesso” si dice sempre “sesso femminile”) debba comunque essere una causa di diminuzione e di differenziazione. Anche se non è facile stabilire quanto ciò possa aver avuto effettivamente dei riflessi sulla concreta amministrazione della giustizia.

Ed è paradossale che sia proprio dai progressi dell’anatomia e della fisiologia che si siano tratte quelle conclusioni che contribuiranno a definire il maschile come paradigma dato, e il femminile come diverso. D’altro canto, proprio la resistenza ad ogni attribuzione di modernità al femminile, potrebbe spiegare le continue oscillazioni ed il costante intreccio, nelle argomentazioni dei giuristi, tra le dissertazioni scientifiche sull’anatomia e sulla fisiologia del corpo umano e i richiami alla letteratura del passato più remoto, e, in particolare, alla tradizione romanistica.

Un elemento ricorrente, nella letteratura criminalistica del secolo scorso sul nostro tema, è infatti il costante richiamo alle fonti romane. I riferimenti a tali fonti, che potrebbero apparire relativamente marginali perché molto lontani in ogni senso dall’universo di discorso in cui ci si muove, assumono invece un diretto interesse per comprendere i processi stessi della costruzione dell’inferiorità giuridica della donna. La maggior parte dei giuristi, infatti, quando affronta la questione dell’incapacità e degli impedimenti connessi al sesso femminile, sente la necessità di richiamarsi alla sapienza antica, sia a quella dei giureconsulti romani, sia a quella dei Padri della Chiesa. Questi richiami sono spesso oscuri e contraddittori e si prestano talvolta a suffragare tesi diverse o addirittura opposte.

Il concetto romanistico cui più spesso si fa riferimento – talvolta esplicitandone il significato, più frequentemente solo postulandolo come qualcosa di ovvio e scontato, ma quasi mai discutendone la fondatezza – è quello di infirmitas sexus, o di imbecillitas sexus oppure di fragilitas sexus (6) che, dalle sue primitive formulazioni, mantiene pressochè intatta la sua vitalità nel corso dei secoli diffondendosi in tutta Europa.

Ciò che è costante nella storia di questa categoria è da un lato la genericità e l’ambiguità dei suoi usi, dall’altro la duttilità e molteplicità delle sue applicazioni. A seconda delle necessità, l’infirmitas dispiegherà sempre, e nella maniera più estesa una straordinaria capacità di discriminazione e insieme di controllo sulle azioni delle donne. La si ritrova come presupposto al divieto, per il sesso femminile di rivestire cariche pubbliche, di essere giudici, di assumere tutele, di postulare nec pro alio intervenire, cioè di esercitare l’avvocatura (7). Di denunciare o accusare per taluni reati. Oppure ad escludere il dolo, e a giustificare talune scusanti per l’ignoranza del diritto, infine a rendere dubbia o non valida una testimonianza femminile.

Ma se si risale direttamente alle fonti, e si analizzano i principali luoghi in cui è presente questo concetto, l’estensione che nel corso del tempo si è voluta attribuire ad esso sembra assai amplificata. E come è stato dimostrato, la sua stessa formulazione sembra essere spesso frutto di interpolazioni (8).

Ciò che qui interessa però non è tanto la ricostruzione del senso legittimo dell’infirmitas quale compariva nell’opera dei giureconsulti romani, quanto il fatto che essa abbia rappresentato nel coso dei secoli un legame con la sapienza antica a giustificazione e fondamento della soggezione delle donne. Anche se con differenti determinazioni, la minorità femminile sembra essere già stata sperimentata dai criminalisti nel corso dei secoli: quando filosofi come Spencer o Darwin o Comte, per non parlare di Moebius, o del nostrano Mantegazza, cominciano a dedicarsi ai loro studi sulla donna, già molto è stato scritto dai giuristi per esempio in tema di femminilità e ragione.

Così Farinaccio, il cui monumentale trattato Praxis et theorica criminalis esercitò una larghissima influenza sullo sviluppo del diritto penale in Italia e in Francia e fu utilizzato comunemente per tutto il corso del Settecento, sostenne una minore punibilità delle donne in base alla loro minore razionalità (9). Tesi che in gran parte riprese da Tiraquello, che anche non sembrava nutrire molta fiducia nella razionalità femminile, autore di un ampio saggio di diritto familiare e matrimoniale, una vera e propria summa di regole, la cui autorità in materia orientò i più importanti giuristi almeno nei due secoli seguenti (10). E ancora altri come Anton Matthaeus o il più moderno Renazzi sostennero con simili argomenti la minore punibilità femminile (11).

Il lavoro ottocentesco più significativo, se non altro per la sua ampiezza, sull’imputabilità penale delle donne è il saggio sul sesso femminile del medico Ernst Spangenberg, scritto negli anni venti e pubblicato in Italia in una raccolta di scritti germanici del 1846 curata da Francesco Antonio Mori (12). È probabile che esso abbia esercitato una notevole influenza sulle opinioni dei penalisti italiani, sia per il prestigio della raccolta che per la sua larga circolazione.

Anche Spangenberg, dopo essersi interrogato sul paradosso di una “perpetua tutela” delle donne nei “diritti civili” in contrasto con la loro parificazione al maschio “quando si tratta di delitti e pene”, affronta il problema seguendo uno schema che sarà in seguito imitato da molti. Il suo punto di partenza è un’analisi dettagliata delle facoltà raziocinanti della donna in rapporto alla sua sfera sessuale e l’idea che solo in base a un’ipotesi “metafisica” si possa non vedere nessuna differenza “fra l’anima virile e la muliebre” (13); sicché gli sforzi che si vorrebbero fare in direzione di un’educazione delle donne – e qui cita significativamente Catherine Macaulay e Mary Wollstonecraft – sono illusori.

Entrambi i sessi, ammette Spangenberg, appartengono alla specie umana, e in quanto esseri razionali sono certamente uguali fra loro. “Ma l’essere razionale nel mondo dei sensi dipende ancora dal corpo, e da molte altre cose, ed è così suscettivo di parecchie varietà e disuguaglianze, che sono prodotte o determinate da quelle circostanze. Il sesso, l’età, la salute influiscono sulla potenza dell’animo, quanto l’educazione, i costumi, le consuetudini: e perciò tutte queste cose debbono porsi in bilancia per determinare lo stato giuridico di ogni membro della città” (14).

È quindi necessario, in primo luogo, occuparsi della conformazione del corpo della donna, e poi delle sue attitudini intellettuali. Il corpo della donna, osserva Spangenberg, è molto diverso da quello dell’uomo: “basta a provarlo anche uno sguardo fugace” (15). E le diversità sono “altrettanti contrapposti alla natura virile” (16): le ossa sono molto più rotonde, bianche e molli, i muscoli molto più sottili, deboli e lenti, i loro filamenti più flessibili, umidi e soffici. E ancora: “I nervi ed anche il cervello sono in proporzione più piccoli: e quelli sono più molli, e i loro capi molto più tenui dei virili” (17).

Tutto, insomma, indica una generale debolezza e delicatezza, e se si volesse con una diversa educazione modificare questa delicatezza e “ingagliardire l’espressione dei muscoli e modificare la forma delle membra, ciò sarebbe un rivestirsi del potere della natura; perché siffatte alterazioni violente si convertirebbero in vere perturbazioni della natura muliebre” (18). Ma non solo i muscoli sono più delicati. Nel corpo femminile esiste una sensibilità molto più acuta e i nervi sono più eccitabili. E questa maggiore sensibilità “viene accresciuta, e specialmente diretta dagli organi che sono formati per lo scopo particolare della donna” (19). “La potenza degli organi sessuali esercita una maggior signoria sul corpo della donna. Tostoché essi sono entrati in azione, e godono della loro propria vitalità, traggono a sé in qualche modo la intiera organizzazione, la dominano, e la modificano, e non di rado la disturbano, e la sconvolgono” (20).

Gli organi sessuali femminili, sostiene Spangenberg, sono strettamente connessi con il sistema nervoso e quindi esercitano la loro grande influenza anche sulla “attività spirituale”. E questa influenza, al di là delle difficoltà di accertarla in base ad uno studio di anatomia comparata sul cervello, può essere stabilita “osservandone” le varie manifestazioni. Il risultato di questa osservazione – argomenta circolarmente Spangenberg – è precisamente che c’è una grande differenza tra la forza intellettuale dell’uomo e quella della donna. Le donne, osserva ancora Spangenberg, sono più sensibili a tutto ciò che è esterno; ed hanno una “immaginativa” più mobile che profonda, “più baleni di pensiero che pensieri” (21). Il loro pensiero è assai instabile e perciò esse non hanno mai fatto grandi scoperte. Le donne cambiano idee continuamente. Operano per sentimento più che per idee razionali. In esse le facoltà di conoscere e giudicare sono più deboli. Giudicano secondo le apparenze del momento e non si curano delle conseguenze. Sui loro giudizi influiscono molto di più gli esempi che i principi. Mancano quindi di indipendenza perché il giudizio degli altri pesa enormemente sul loro. Ma se la facoltà di conoscere e giudicare è più debole che negli uomini, la facoltà “appetitiva” è nelle donne molto più elevata. Esse sono insomma guidate nell’azione dai sentimenti, anziché dalla conoscenza e dalla volontà perché “sentono realmente più che non pensino” (22)

Di qui anche l’eccessività delle donne. Nell’animo femminile si agitano le passioni più contraddittorie, e tutti i movimenti dell’animo dimostrano sentimenti eccessivi. “Le loro virtù toccano l’estremo, come i loro vizi: una donna buona è migliore di un uomo ottimo, una cattiva è mille volte più trista d’un pessimo” (23). La sincerità per le donne è un merito maggiore che per gli uomini poiché esse inclinano maggiormente alle simulazioni all’astuzia, alla scaltrezza.

Infine Spangenberg dedica una lunga analisi alla mancanza del libero arbitrio nelle donne. “la coscienza della legge non si trova mai nel sesso muliebre al medesimo grado che nel sesso virile”. E questo perché esse, “a fronte di un sentimento attuale, sogliono disprezzar tutto ciò che lor si presenta come regola obbligatoria”; perché “inoltre la grande vivacità ed instabilità dei sentimenti muliebri consente di rado che l’impressione di una legge penale duri nelle donne tanto lungamente, che esse ne serbino memoria mentre sono agitate dalla tempesta dei movimenti dell’animo e delle passioni; perché infine esse “sono impedite il più delle volte di pervenire a una distinta cognizione delle leggi” cui esse “obbediscono senza comprenderne lo spirito” e “si permettono d’interpretare a capriccio”. Si può insomma ammettere la coscienza dell’illiceità dell’azione per i soli delitti naturali, ma non certo per i fatti “delittuosi per la sola ragione del divieto positivo” (24). D’altro canto, se nelle donne non può riconoscersi la coscienza della legge, neppure può rinvenirsi la “libertà del volere”, infatti “Si può credere, che esista una piena libertà di volere in relazione all’imputabilità, allorché le tre facultà capitali dell’animo umano, cioè di conoscere, di giudicare e di appetire, stanno in tal rispetto fra loro, che le prime due possano dirigere e moderare la terza. Ma in quella stessa misura, che negli uomini, ciò non si verifica nelle donne a motivo delle particolari proprietà del loro corpo, delle conseguenti attitudini limitate del loro spirito, e di altre circostanze di educazione, di costumanze, e di relazioni civili” (25).

La conclusione è quindi che “debba l’imputazione essere ordinariamente minore nel sesso muliebre”; che in particolare si “esige una pena più mite pei delitti d’infanticidio e di procurato aborto, quando sono stati causati dalla tema di perdere l’onore del sesso; e che lo stesso vale per gli altri delitti “nei quali grandemente influiscono gli organi sessuali e gli appetiti che ne procedono, come l’adulterio, l’incesto e simili” che parimenti “sono meno imputabili nella donna che nell’uomo” (26).

3. Un doppio sistema punitivo?

Anche se in Italia il codice penale Zanardelli del 1889 sembrò chiudere l’argomento escludendo il sesso come fattore minorante l’imputazione, per opera in gran parte di Francesco Carrara, – tra gli artefici del codice – contrario da sempre all’idea di una possibile diversa imputabilità per le donne (27) il dibattito continuerà a mantenersi vivo ancora per qualche decennio e interesserà non solo i giuristi ma anche e soprattutto gli scienziati e i medici positivisti, e in particolare – tra i medici – quelli che facevano riferimento alla scuola di ginecologia positiva e ai suoi più importanti esponenti, Muzio Pazzi e Luigi Maria Bossi (28).

Mai come in questo periodo la questione del corpo femminile fu così tematizzata e approfondita dalla riflessione giuridica, grazie anche all’emergere degli studi di medicina legale, e alle figure dei suoi più importanti esponenti, che molto spesso erano psichiatri. Identificando, in accordo con gli orientamenti medici più moderni, nelle “condizioni patologiche” “degli organi della maternità” (29) l’origine di un’instabilità nervosa che potenzialmente può condurre al delitto, alcuni proponevano per le donne diversi criteri di punibilità. Anche Lombroso nel suo ampio trattato sulla donna delinquente, (30) aveva affrontato fondamentalmente il tema del corpo femminile, partendo fin dalla descrizione della normalità e delle anomalie nelle femmine degli animali per risalire via via fino alla donna. Ma la questione della pena e della imputabilità era stata posta solo marginalmente. La sua antropologia era infatti rigidamente deterministica: in base ad essa non solo le azioni umane, ma anche le attitudini, le inclinazioni e le doti morali e intellettuali delle persone sono effetti meccanicistici della fisiologia o dalla patologia del corpo umano; il libero arbitrio, quindi, non esiste, le persone sono diverse l’una dall’altra in ragione delle loro differenze antropologiche, ed è difficile perciò poter parlare di imputabilità e pena. Tuttavia nel capitolo intitolato “terapia” aggiunto nell’edizione del 1927 del trattato dalla curatrice Gina Lombroso (31) troviamo un Lombroso favorevole al probation system, a una legislazione matrimoniale meno oppressiva per la donna in cui sia contemplato il divorzio, e inoltre la proposta di leggi più flessibili sull’aborto e sull’infanticidio.

Quanto alle pene, “più che punire, basta nella maggior parte dei delitti delle donne, educare, far loro capire che esse hanno agito male” (32). Con quali sistemi? Le ipotesi punitive che vengono proposte si commentano da sé: “Nelle donne perciò il carcere e le pene afflittive sono tanto meno necessarie che il loro reato, quasi sempre effetto di suggestione o di passione, le rende meno terribili quando si allontanino dal suggestionatore o dal tormentatore: amante o marito. Vista poi la grande vanità femminile, l’importanza che essa dà al vestito, ai gingilli e ai mobili della sua casa si potrebbe sostituire molte volte nei reati di piccoli furti, di risse, le pene carcerarie con delle pene afflittive della loro vanità, come il taglio dei capelli, il sequestro degli ornamenti, dei mobili: soprattutto si deve nei ricoveri imporre il lavoro alle oziose collo spauracchio della fame”. Neppure il punire le donne in modo particolare sembra essere una novità: “Adottando speciali pene per le donne noi ritorniamo a quanto facevano i nostri antichi, gli indiani, gli ebrei (Deuteronom. XII), i Germani; anche in Russia nel medioevo la donna che aveva colpito il marito doveva cavalcare un asino al rovescio; in Inghilterra le donne che avevano rissato fra loro dovevano percorrere le vie del villaggio sollevando un peso a cui erano legate con catene, e le calunniatrici e ciarlone dovevano camminare con una musoliera” (33).

Ma è invece la questione del libero arbitrio quella che sembra essere la più importante per chi, come il penalista Enrico Ferri, darà una versione direttamente giuridica delle teorie lombrosiane: “Tutti i criminalisti” – scrive nel suo La teorica dell’imputabilità e la negazione del libero arbitrio del 1878 – “sono d’accordo nell’ammettere il sesso come circostanza minorante la pena… La questione verte invece nel decidere se il sesso debba ammettersi anche quale causa minorante il delitto o la imputazione” (34).

Dopo aver distinto in generiche e specifiche le cause minoranti l’imputabilità potenziale, Ferri annovera il sesso femminile tra le specifiche, insieme alla vecchiaia e al difetto d’educazione. Precisamente, il sesso femminile è per Ferri una causa permanente di diminuzione della imputabilità potenziale; a differenza delle cause che egli chiama “generiche”, come l’età minore e il sordomutismo “con discernimento”, il sonno e l’infermità mentale “incompleti”, l’ubriachezza semipiena e l’impeto di affetti meno violento, che sono in qualche modo transitorie.

Nelle stesse pagine Ferri cita, in proposito, un’illuminante lettera di Comte a Stuart-Mill del 16 luglio 1843. Comte scrive: “Per quanto imperfetta sia tuttora da ogni lato la biologia, mi sembra che essa possa già stabilmente affermare la gerarchia dei sessi, dimostrando anatomicamente e ad un tempo fisiologicamente che quasi tutta la serie animale, e soprattutto nella nostra specie, il sesso femminile è costituito in una specie di stato di infanzia radicale che lo rende essenzialmente inferiore al tipo organico corrispondente” (35).

Le tesi di Enrico Ferri – e in generale della Scuola positiva – sulla disuguaglianza tra i sessi e sulla sua rilevanza penale, sono ovviamente aderenti all’antropologia positivistica. L’imputabilità delle donne, pertanto, è tendenzialmente negata al pari di quella degli uomini, essendo considerata uno pseudoconcetto fondato sul pregiudizio del libero arbitrio ed è sostituita dalla categoria della pericolosità. Una simile antropologia vale a fondare “scientificamente” la differenza di sesso come disuguaglianza e precisamente come inferiorità della donna rispetto all’uomo. Per questo nelle argomentazioni di Ferri, come in generale in quelle degli altri positivisti, i riferimenti alle tesi romanistiche e più in generale ai giuristi del passato sono più rare: la tesi dell’inferiorità della donna non ha infatti più bisogno di accreditarsi con il principio d’autorità ma s’inquadra perfettamente nella nuova antropologia; tanto più che il nuovo indirizzo si presenta come radicalmente innovatore rispetto alla tradizione e rifiuta programmaticamente qualunque continuità con la vecchia cultura penalistica.

Una tematica assai dibattuta – oltre a quella sulle ragioni e sull’origine di una criminalità femminile statisticamente così poco rilevante rispetto alle cifre globali – è quella della discrasia tra penale e civile che si verrebbe a creare ammettendo la piena responsabilità e imputabilità delle donne. Se infatti a qualche studioso sembra, ad esempio, incoerente ed ingiusto che, ad un’asserita incapacità legale di agire autonomamente per gestire la propria vita e i propri interessi, debba corrispondere una piena responsabilità penale (36), la proposta, non è quella di rimuovere semplicemente le discriminazioni, che costringono la donna ad una cittadinanza civile e politica non piena, ma quella di avanzare l’ipotesi di un’imputabilità minorata e addirittura di creare un doppio diritto penale.

Così tra gli altri il penalista Francesco Puglia che sebbene si dichiari – in via di principio – contrario ad una minore imputabilità delle donne, si produce nella difficile prefigurazione di ipotesi punitive diverse per esse.

Dopo aver sostenuto che – pur essendo le differenze organiche fra l’uomo e la donna circostanze determinanti la minore criminalità della donna rispetto all’uomo – esse non possono essere “ragioni giustificative per stabilire come principio generale la minore imputabilità di lei” (37), ci spiega come possa giustificarsi, non solo la “concessione di circostanze attenuanti o minoranti la responsabilità in un numero maggiore di casi, che non per gli uomini delinquenti” (38), ma anche la “necessità di stabilire un criterio penale speciale per la donna” (39). Accogliendo in parte le tesi lombrosiane, Puglia classifica le donne delinquenti secondo tre categorie fondamentali: le criminali- nate, le criminali pazze e le criminali d’occasione. “Donde la conseguenza, che il sistema penale non può essere lo stesso per tutte le donne delinquenti, e che quindi nell’interesse dell’ordine giuridico o sociale e per non sacrificare inutilmente le donne delinquenti ad un mal compreso principio di difesa sociale, bisogna che si stabiliscano tre specie fondamentali di misure repressive che potrebbero essere: le case d’incorreggibili per la prima categoria; i manicomi criminali per la seconda; le pene restrittive della libertà personale, messe in armonia con taluni surrogati penali, per meglio adattare la repressione all’indole della donna delinquente” (40). Sulle case d’incorreggibili cui sono destinate le deliquenti – nate, Puglia non si sofferma se non per chiedersi “se convenga la perpetuità o la temporaneità della reclusione, poiché, quando la donna ha raggiunto un’età avanzata è nella impossibilità di commettere delitti” (41).

Quanto alle pene pecuniarie, esse non sembrano proprio essere adatte a colpire le donne: e ciò deriva dalla ovvia considerazione che le donne hanno con il denaro un rapporto assai mediato, in altre parole, che il denaro che hanno non è il loro e che anche se lo fosse non ne potrebbero disporre interamente e liberamente. Osserva Puglia che “di pene pecuniarie non bisogna parlare, quando trattasi di delitti commessi da donne, perché data la loro speciale posizione sociale, o la pena pecuniaria verrebbe convertita in pena restrittiva della libertà personale o sarebbe di niuna efficacia per la condannata” (42). Meglio allora sarebbe la pena corporale con l’obbligo del lavoro – e qui Puglia si riferisce prevalentemente ad una pena di tipo detentivo – “la quale per essere efficace dovrebbe essere regolata diversamente avuto riguardo non solo all’indole della rea, ma anco alla natura particolare del delitto commesso” (43).

Le posizioni più comuni tra i giuristi sono tuttavia quelle, non estreme, che propongono per le donne delle semplici mitigazioni di pena. Ma le motivazioni che essi adducono sono le più diverse: alle donne spetterebbe una pena più lieve in nome della loro minore razionalità e responsabilità, o in proporzione alla loro maggiore fragilità fisica (44), o ancora – se il senso della pena è prevalentemente la sua azione deterrente – una pena ridotta tanto quanto basti, in astratto, a spaventare una donna. Al di là delle differenti ipotesi, quello che sembra comune è il bisogno che emerge comunque, anche se in forme diverse, di mettere in evidenza il fatto che il femminile porta con sè una permanente minorazione, e che il giurista ne è consapevole (45).

Da un versante del tutto opposto si muove la riflessione di Valeria Benetti, esponente del movimento politico femminile che nel suo La donna nella legislazione italiana (46) conduce un’attenta critica della legislazione vigente, non solo in materia civile, ma anche in quella penale.

Il metodo è quello di cercare di spiegare, nel modo più chiaro e accessibile, non solo i luoghi delle più macroscopiche differenziazioni, ma anche tutti quei punti in cui, ad un’apparente parità di diritti, corrisponda una discriminazione di fatto nei confronti della donna, o l’aggravio delle responsabilità che ad essa, in concreto, competono.

Riprendendo lo schema classico del contrasto tra l’esclusione dai diritti politici e la piena responsabilità penale, fin dall’inizio del suo saggio Benetti dichiara che un principio di equità avrebbe dovuto far corrispondere alle “limitazioni fatte alle donne nei diritti civili nonché all’esclusione assoluta dai diritti politici” anche delle limitazioni nelle responsabilità che comportano una pena. Il legislatore, invece, ha disposto in senso contrario. “Riguardi speciali al sesso dovevano suggerire limitazioni nelle responsabilità, che portano a subire una pena morale e materiale, e non in quelle che, come corrispettivo, offrono il godimento di diritti”. La legge invece riconosce alla donna una imputabilità, “una capacità volitiva e intellettiva eguale a quella dell’uomo dinanzi alla responsabilità del delitto” e “l’esercizio della capacità giuridica è esteso alla donna essenzialmente in ragione inversa del vantaggio, che ad essa può derivarne” (47).

Sulla questione della imputabilità penale delle donne quindi anche Benetti, si pronuncia per una minore responsabilità ma con argomenti assai diversi da quelli incontrati finora.

La donna non si trova in una condizione mentale di minor razionalità ma piuttosto una storica “relativa irresponsabilità e incapacità” indotta dalla “condizione effettiva di dipendenza in cui è posta la donna rispetto all’uomo”, “sia determinando in lei una relativa irresponsabilità e incapacità, sia compiendo nella sua psiche una vera e selezione dei sentimenti di remissività, di acquiescenza, di incondizionata obbedienza” (48).

È sotto questo profilo che Benetti analizza il codice penale, passando così in rassegna i luoghi che ritiene più significativi, come ad esempio la figura della correità. Infatti, essa dovrebbe essere considerata diversamente quando il correo è una donna che è spesso legata a chi ha commesso il reato da vincoli affettivi, o quando, anche in nome di questi vincoli si possa ipotizzare che la volontà femminile sia stata coartata. Benetti critica anche con forza il fatto che la posizione di preminenza del marito si mantenga intatta nella famiglia, anche quando questi sia stato condannato a pene lunghe e per reati infamanti. Infatti, se il giudice lo consente, l’uomo può mantenere intatto l’esercizio della patria potestà e addirittura dell’autorizzazione maritale.

E critica inoltre, avendo sempre presente la concretezza delle fattispecie che possono verificarsi, la formulazione di molti reati, dall’abuso dei mezzi di correzione e dei maltrattamenti in famiglia, alla riduzione in stato di schiavitù, l’adulterio, il ratto, la violenza carnale, il delitto d’onore. Con acutezza si sofferma anche sulle più evidenti contraddizioni di quest’ultimo, sostenendone l’abolizione, se non altro per l’impossibilita ‘ di stabilire una vera e propria eguaglianza di trattamento fra i sessi. “Difatti è razionalmente esclusa dalla legge la considerazione del caso in cui la sorella uccida il fratello sorpreso in illecito concubito” (49). E ancora una serrata critica, sposando la tesi della pena come difesa sociale, all’esclusione o diminuzione dell’imputabilità per i reati commessi in stato d’ubriachezza dando per scontato che essi vedano quasi sempre come vittime delle donne.

4. L’internamento delle donne

Le differenze di trattamento delle donne nell’esecuzione penale riguardano naturalmente la pena carceraria, la sua nascita e la sua trasformazione. Mentre per gli uomini il carcere sembra configurarsi rapidamente, alle origini della modernità penale, come luogo di esecuzione di pena, per le donne la pratica della reclusione ha sempre funzioni non solo punitive ma anche di generico controllo sociale.

La nascita del carcere in senso moderno è, come è noto, fortemente intrecciata alla metamorfosi di quelle importanti strutture di internamento per i poveri, per i mendicanti e per i vagabondi, che nel corso del Seicento e del Settecento furono istituite un po’ dovunque in Europa. È infatti in quest’epoca che si sviluppa – dapprima in forme arbitrarie e poi sulla base delle prime severissime, se non sempre efficienti, leggi in tema di povertà e di vagabondaggio – un imponente fenomeno di internamento di strati sociali emarginati, ambiguamente collocabile tra assistenza, beneficenza e repressione.

L’ambiguità del luogo di internamento che nel caso del recluso maschio vede definito con un processo abbastanza rapido il suo connotato di carcere come luogo di pena, o alternativamente di ospedale o di ricovero temporaneo, sembra sia stata per i minori, e in modo assai più evidente e rilevante per le donne, mantenuta più a lungo nel tempo. Se il carcere, come luogo di espiazione di una pena, o come mezzo di emendare un condannato, ha ben presto avuto alle spalle come antecedente la commissione di un vero e proprio reato e la relativa condanna, e non un semplice comportamento deviato, ciò è accaduto prevalentemente per gli uomini adulti. Per ciò che riguarda le donne, e talvolta i minori, la storia del carcere ha infatti tempi diversi. La confusione tra funzioni penali e funzioni disciplinari dell’internamento carcerario, del resto, non solo si protrae più a lungo per le donne ma è anche più risalente nel tempo.

È la peculiarità della devianza delle donne, stigmatizzate prevalentemente per reati assai frequentemente attinenti alla sfera sessuale, che contribuisce a mantenere una sorta di continuità tra il carcere e le istituzioni internanti concepite a salvaguardia dell’onore, o della salute dell’anima e del corpo. Spesso sono gli stessi luoghi che, da ricovero volontario, ritiro, conservatorio od ospedale, attraverso le razionalizzanti sistemazioni settecentesche fino alle ristrutturazioni nel corso dell’Ottocento, si trasformano in carcere.

Per le donne un massiccio internamento preventivo fu praticato a lungo e in varie forme in età moderna, da un lato nei conventi, dall’altro in quelle istituzioni di protezione come i conservatori cui si accedeva normalmente nella prima infanzia o nell’adolescenza, quando i pericoli di “caduta” divenivano incombenti, e non necessariamente in seguito ad una mancanza o ad una infrazione alle regole ma per questioni prevalentemente di sussistenza. Gli stessi conservatori, anche nel corso dell’Ottocento e in epoca postunitaria, mantennero a lungo questa funzione preventiva, anche se, per ognuno di essi, erano previste importanti distinzioni che ne determinavano le caratteristiche e ne orientavano le funzioni di controllo sociale, in base all’origine e agli intenti per i quali erano stati fondati.

Sulla base di un’articolata gerarchia si prevedeva da un lato l’internamento di donne vedove o orfane di condizione “civile” o aristocratica il cui onore era garantito dal loro stesso nome, e che tuttavia avevano bisogno di un ricovero; dall’altro lato quello di donne di condizione subalterna, oneste da distinguere dalle “pericolanti”, dalle “pericolate” e ancora dalle ravvedute o pentite (50)

L’ingresso nei conservatori avveniva spesso a seguito di una “supplica”che gli stessi genitori della fanciulla, o un tutore, o adulti comunque responsabili per lei, o la fanciulla stessa indirizzavano, spesso appoggiati da qualche eminente protettore, a chi sovrintendeva alla pia istituzione.

Ancora diversa la situazione delle opere pie che accoglievano donne il cui onore era già compromesso, prostitute pentite, convertite, donne “cadute di fresco ma non esposte al pubblico”, “quelle che sono in pericolo prossimo di cadere o in sospetto di già seguita caduta” (51). E ancora perfino donne riottose all’autorità familiare e per questo fatte internare spesso su istanza di mariti, o di fratelli, o di sindaci e parroci (52).

Talvolta le domande di internamento a scopo di riabilitazione potevano pervenire anche da luoghi in cui è più chiaro il carattere carcerario: così ad esempio, come scrive Laura Guidi, le domande per essere ammesse all’asilo napoletano di Santa Maria Maddalena (fondato nel 1852) per donne pentite che aveva una funzione di recupero e di riabilitazione, “provenivano in parte dalla ‘sala di correzione’ dell’ospedale di Santa Maria della Fede, fondato dai francesi per prostitute affette da mali venerei. Le suore addette alla sorveglianza operavano una selezione, scegliendo le ragazze più giovani – spesso appena entrate nell’adolescenza – e quelle che davano maggiori segni di pentimento” (53). Inoltre, “tra le donne dall’onore in pericolo o perduto si tendeva separare quelle recuperabili ad una povertà onesta e laboriosa da altre per le quali si presentava, prima ancora del problema del recupero, quello del controllo, appena un gradino al di sopra dei provvedimenti di polizia e della reclusione in carcere. Dai luoghi di pena, d’altra parte, si accedeva, per premio, ai conservatori per pentite e pericolate, così come nelle carceri venivano trasferite, per punizione, le internate dei luoghi pii che si fossero macchiate di gravi colpe” (54).

Tra le prime a sollevare in Italia il problema delle carceri femminili è la marchesa Giulia Falletti di Barolo Colbert, che a partire dal 1814, sollecitata dall’esempio dell’inglese Elizabeth Fry che nel 1813 aveva visitato il carcere di Newgate (55) denunciandone le terribili condizioni, comincia un’opera infaticabile di carità. Non sono solo le condizioni materiali, pure terribili, a preoccuparla, ma ancor più lo stato di miseria morale che rende queste donne, secondo le sue parole, delle malate nell’anima cui dovrebbe darsi un sano nutrimento spirituale. Con queste idee, la marchesa di Barolo Colbert si faceva promotrice di una serie di iniziative benefiche e assistenziali, assai apprezzate dai suoi contemporanei: tra cui la riorganizzazione del carcere delle Forzate, che essa trasformò in un istituto di pena modello, introducendovi le suore e discutendone l’intero regolamento con le detenute; l’apertura a Borgo Dora nel marzo 1823, su sua proposta accolta dal re Carlo Felice, di una casa di lavoro e ricovero per donne distintesi in prigione per buona condotta o per donne “coupables” che fuori della prigione avessero dato segni di pentimento; l’istituzione nel 1833 del monastero delle Maddalene, destinato ad accogliere. in clausura, donne convertite e penitenti (56). Come è ovvio, è proprio in luoghi come questi che il confine tra funzioni penali e disciplinari dell’internamento non esiste. E che si ribadisce, soprattutto, la funzione moralizzatrice della reclusione femminile.

5. Reclusione e separazione

Negli anni ’30 e ’40 dell’Ottocento si apre e si diffonde anche in Italia, un largo dibattito su come trasformare e migliorare il carcere.

Partendo dalla constatazione che ovunque il carcere è un luogo malsano dove regnano la promiscuità, la violenza e la sopraffazione, la discussione, che darà luogo ad un’ampia pubblicistica sull’argomento, verte – anche sulla base delle esperienze americane, divulgate in Europa dal rapporto di G. de Beaumont e A. de Toqueville del 1833 (57) – sul problema della sorveglianza e dell’isolamento dei detenuti. Si ritiene infatti che l’isolamento e i modi della sua realizzazione, contribuiscano in modo essenziale al pentimento e alla trasformazione morale del reo. Come praticare l’isolamento e la separazione e i modi e i tempi di attuazione questi, è solo una questione di metodo, da attuare attraverso una minuziosa classificazione dei diversi tipi di reclusi selezionati sulla base dell’età, del reato commesso, del tipo di pena che essi devono scontare. Tutti questi dati – insieme a quello importantissimo del comportamento tenuto in carcere, che può dar luogo a premi o a punizioni – contribuiscono alla determinazione di una sorta di punteggio che costituisce appunto la base della classificazione.

Anche per le donne, il criterio cui gli studiosi-riformatori del primo Ottocento sembrano volersi ad ogni costo informare, è quello della separazione. Tuttavia, quello che sembra essere il criterio guida per l’isolamento e la classificazione delle donne, riguarda questioni strettamente connesse alla specificità del sesso femminile. In primo luogo le donne devono essere separate dagli uomini eventualmente rinchiusi in parti diverse dello stesso carcere, per evitare qualsiasi contatto; in secondo luogo esse devono essere protette dagli abusi sessuali che possono essere commessi da guardiani e perciò preferibilmente affidate ad altre donne. In terzo luogo infine, la classificazione comprende, di fatto, solo due categorie di recluse, poiché sono le meretrici, le donne di cattiva fama, che devono essere separate dalle altre qualsiasi reato abbiano commesso. Un punto importante poi è quello che riguarda il destino dei figli delle detenute: in generale se ne prevede, ove non sia possibile la consegna a parenti prossimi, l’affidamento a quelle istituzioni che si occupano di fanciulli abbandonati, raramente si ipotizza che possano restare fino a una certa età con la madre.

Anche uno dei più importanti studiosi di quegli anni – l’ispiratore delle riforme di Carlo Alberto di Savoia in materia penitenziaria – Carlo Ilarione Petitti di Roreto, propone come criterio base della reclusione femminile la separazione e l’affidamento delle detenute ad altre donne, sottoposte comunque alla supervisione un direttore di sesso maschile. Il suo lavoro principale, il trattato Della condizione attuale delle carceri e dei mezzi per migliorarla, pubblicato a Torino nel 1840, è uno dei primi significativi saggi apparsi in Italia in materia penitenziaria. Ma l’opera di Petitti non si limita a questo e ad altri scritti. Egli è anche fortemente coinvolto dagli aspetti più concreti del problema; infatti compirà, su incarico del sovrano, una serie di ispezioni nelle carceri del regno in vista delle riforme, partecipando, in seguito, ai numerosi progetti di miglioramento e di razionalizzazione del sistema penitenziario sabaudo. L’importanza delle riforme di Carlo Alberto non è tanto nei risultati che verranno ottenuti, quanto piuttosto nel fatto che esse costituiranno una sorta di primo nucleo da cui avranno origine le linee portanti del futuro sistema italiano (58).

La presenza delle donne in carcere, anche se minoritaria, non è ignorata da Petitti, che anzi dedicherà alla gestione del carcere femminile numerose pagine. Una preliminare e non marginale preoccupazione anche di questo riformatore, è quella della separazione delle femmine dai maschi, siano essi custodi o detenuti, la cui continua raccomandazione ci segnala utilmente situazioni di fatto, altrimenti di non facile ricostruzione. Non è chiaro tuttavia se la ratio dell’autore sia la tutela delle recluse dagli abusi sessuali, o un generico criterio di buon costume. Egli scrive infatti: “Nelle carceri esclusivamente destinate poi alle donne condannate osservasi ancora, che talvolta i custodi o guardiani maschi sono troppo liberi nelle relazioni loro con esse” (59). Inoltre, “In molte carceri di primo arresto o di deposito sono necessariamente sostenuti individui dei due sessi. Quantunque si tengano in stanze separate, o sia per trascuranza dei custodi, o sia per la viziosa distribuzione interna de’ casamenti, la separazione non si può dire assoluta e frequentemente ne seguono indirette relazioni nocevoli in sommo grado ai costumi. Di fatto le finestre prospicienti, i corridoi comuni, le camere attigue, o non separate in modo che riesca impossibile il passaggio della voce, de’ suoni e dei segni; le corti praticate alternativamente, la vista in esse, dalle finestre dei rispettivi quartieri, dei ditenuti d’altro sesso; la cappella comune o da insufficienti separazioni divisa, sono tanti inconvenienti frequentissimi, che scorgonsi nelle carceri, dai quali inconvenienti derivano atti di scostumatezza troppo facili ad immaginarsi” (60). Altro problema è quello della separazione tra recluse, in particolare delle giovani dalle anziane, ma soprattutto dalle donne di malaffare. Una soluzione, per non confondere le giovani con donne corrotte, è per Petitti la creazione di “Ergastoli per femmine di mal affare” collegati con l'”ospizio celtico”. “Gli ergastoli per femmine di mal affare debbono essere collocati in vicinanza delle grandi città, ove sogliono per lo più convenire molte di quelle disgraziate. Siccome la salute di esse spesso è travagliata dai mali che derivano da una vita dissoluta, è savio ed opportuno consiglio quello di aggregare ai detti istituti di penitenza un ospizio celtico, onde curarvi le infette. I due istituti però vogliono essere interamente distinti, perché le regole correttive dell’uno per molti rispetti non sarebbero applicabili all’altro, atteso che l’umanità languente richiede maggiori riguardi. La direzione e l’amministrazione può essere tuttavia cumulata, con che da chi vi presiede si osservino rispettivamente le diverse discipline stabilite. Nell’ergastolo sono praticabili tutte le regole delle carceri correttive femminili, colla sola eccezione, che il tempo della ditenzione vuol essere in certo modo lasciato all’arbitrio della direttrice, la quale scorgendo segni di ravvedimento, e mezzi d’onesto collocamento, debbe poter mettere in libertà con annuenza della superiore autorità politica. Nell’ospizio celtico le regole della segregazione, del silenzio, del lavoro e simili non possono praticarsi, e debbono piuttosto prevalere le norme di vita comune usate negli spedali.

D’altronde in quest’ospizio possono anche accogliersi, però in quartieri separati, donne o fanciulle, che non siano di mala vita, e solo trovinsi infette non per propria colpa, sì che sarebbe men conveniente che quel ricovero avesse aspetto, e nome di casa di penitenza. È inutile ripetere, che la stessa esclusione de’ maschi debbe aver luogo per tali istituti, eccetto il direttore, il cappellano ed il chirurgo” (61).

Egli si soffermerà ancora sul problema delle guardiane ed esporrà la sua tesi favorevole all’affidamento delle carceri femminili a delle donne. Per le carceri a cui sono destinate delle condannate Petitti suggerisce infatti che: “La direzione interna vuol essere affidata a matrone o suore di Carità, provette e bene esperte onde conoscano i femminili raggiri, con esclusione assoluta di qualsiasi maschio dalla custodia ed ingerenza nella disciplina interna. Un direttore maschio però, uomo provetto ed esperto, quanto prudentecastigato e severo, debbe soprantendere al governo della casa, concertandosi colla matrona o suora direttrice per ogni atto d’interna disciplina e d’amministrazione, di cui darà conto alla direzione centrale. L’alloggio del direttore vuol essere separato dalla carcere, ed al suo ingresso in essa egli debb’essere accompagnato sempre dalla direttrice, o da altra persona del sesso di questa, incaricata di supplirla.

Per gli atti coattivi che fossero necessari verso le ditenute proterve, oltre alle matrone o suore incaricate della custodia e vigilanza, si dovranno avere alcune serve robuste, le quali sieno in grado di praticare tali atti, senza che occorra chiamare alcun maschio, tranne il caso di aperta ribellione, in cui si chiamerà la guardia esterna della milizia. Questa debb’essere stanziata in modo da non avere la menoma relazione di vista o di parole colle ditenute” (62). Analogamente per le minorenni si prevedono “Le stesse norme esposte nell’articolo precedente (regole pe’ giovani inquisiti) […] se non che si debbe avvertire, ch’esse voglionsi affidare alla continua custodia di matrone o di suore di Carità, le quali impieghino quel tempo di preventiva reclusione a cercare di volgerle ad abiti migliori di vita. L’ingresso in quelle case di arresto vuol essere vietato ai maschi, e lo stesso direttore della carcere non debbe avere facoltà d’entrarvi, che accompagnato dalle dette matrone o suore: dicasi altrettanto degli ispettori” (63).

Il problema della separazione delle donne a tutela della “moralità sessuale” tuttavia non è nuovo. Esso sembra infatti aver sempre assillato l’organizzazione della reclusione carceraria femminile. Scrive per esempio Priori, Pratica criminale, (Venezia 1678): “Le donne prigionate siano tenute separate da gli huomini o pure con altre donne o in altro luogo, parlando de le donne honeste et in casi gravi, et non se fossero impudiche;… et guardisi il Custode in pena della vita di usare con esse carnalmente non dovendosi far ingiuria al loco publico, etiam che le fossero meretrici” (64). Analogamente, un secolo prima, Paulus Ghirlandus raccomandava: “Mulier honesta in causis criminalibus, si crimen sit leve, vel de non atrocioribus, non debet personaliter detineri, neque incarcerari, sed fideiussoribus relaxari, si habet facultatem fideiubendi…: si vero non haberet fideiussorem, similiter non detinetur, sed statur suae iuratoriae cautioni et relaxari. Si autem crimen esset de atrocioribus, tunc non incarceratur apud viros, sed intruditur in monasterium vel assisterium custodienda, vel apud honestas matronas conservatur” (65). E ancora nel 1931, a proposito del diritto vigente, scriveva Vincenzo Manzini: “Le donne, anche quando non subiscono l’isolamento continuo, devono essere custodite separatamente dai maschi… e quelle di “facili costumi” sono separate dalle altre” (66).

In epoca postunitaria emerse non solo la necessità di riordinare le opere pie in generale, ma anche il problema di risolvere in qualche modo gli internamenti femminili forzati. Furono ordinate così varie ispezioni a funzionari ministeriali, che ci hanno lasciato nelle loro relazioni una chiara immagine dell’eterogeneità di questo genere di internamento. Vi si raccomanda soprattutto una separazione e classificazione delle donne internate dividendo le giovani dalle anziane, le sane dalle malate, le condannate dalle penitenti. Venne disposto anche che molte delle recluse, ove lo desiderassero e ne avessero la possibilità materiale, uscissero e ritornassero in famiglia, anche se raramente ciò avvenne.

Nei luoghi di internamento femminile, la presenza di religiose era stata sicuramente frequente, ma non generalizzata. Anche nelle carceri vere e proprie, sia per gli uomini che per le donne la presenza di religiosi aveva mantenuto, talvolta fino alle soglie dell’Ottocento, un carattere ancien régime, di occasionale sostegno morale e materiale. Era accaduto inoltre che alcuni tipi di detenuti fossero affidati a congregazioni religiose perché provvedessero al loro sostentamento. Questa tradizionale ma saltuaria e irregolare presenza di confraternite di carità di carattere religioso, esigeva ad un certo punto di essere ufficializzata e regolata. Estesa al nuovo regno la legge penale del 1859 (ad eccezione delle province Toscane), si provvide così a compilare un nuovo regolamento per tutte le Case di pena che sancì in modo definitivo l’ingresso delle suore, insieme a quello delle guardiane, nei luoghi di pena femminili. Un esperimento in tal senso era stato già realizzato in Piemonte, nel carcere femminile di Pallanza, dopo la sua ristrutturazione del 1834, e dopo essere stato caldeggiato per anni da filantropi e riformatrici come la già ricordata Giulia di Barolo.

Si tratta di un momento di svolta, di un evento apparentemente ovvio ma assai importante. Sia per gli effettivi poteri, che furono attribuiti alle suore e alle superiore, di governo delle coscienze e di mediazione fra le detenute e gli amministratori dell’istituzione, sia perché la loro presenza – con tali poteri – si prolungherà indefinitamente, passando indenne dal regime liberale a quello fascista fino alla attuale repubblica. Questa presenza contribuirà, in modo decisivo, a conferire al carcere femminile e a perpetuare nel tempo – oltre ogni ragionevole modernizzazione – quel carattere di forzata espiazione morale e di rigenerazione attraverso la pena anche quando una simile ideologia sarà completamente tramontata (67).

6. Il senso di un’aporia: la pena di morte a chi è genitrice di vita

Come si è visto, il carcere come pena sembra aver seguito, per le donne, itinerari originali e specifici. Altrettanto può dirsi sotto molteplici aspetti e con diverse implicazioni, anche per la pena capitale.

Come giustiziare correttamente una donna, come suppliziare un corpo femminile? Rispondere, anche sommariamente, a questi interrogativi, significa ripercorrere una storia millenaria, alla ricerca di tracce identificabili al di fuori di determinazioni puramente giuridiche.

Se è vero che la pena è per la collettività anche un pharmakon (68), l’antidoto che imita la violenza avvenuta, e, riproducendola sul condannato, ricostruisce l’equilibrio sociale violato, la donna – quale che sia il posto che le è assegnato in una società data – rappresenta quando è criminale una malattia “diversa” e richiede una diversa risposta.

Intervenire infatti con una morte artificiale su chi è comunque – anche al di là della sua volontà – portatrice di elementi vitali di negazione della stessa morte, potrebbe essere dannoso per la collettività. Occorre quindi, in qualche maniera, esorcizzare la potenzialità di vita contenuta nel corpo femminile e predisporre metodi adeguati a questo fine. Primo fra tutti quello che chiamerò della “attenuazione simbolica” della pena.

I modi e le forme di questa complessa operazione di simbolizzazione non sono né univoci né espliciti. Tenterò comunque di ricostruirne il senso a grandi linee.

La politica dell’attenuazione simbolica, è certamente connessa ad una sorta di intangibilità pubblica del corpo femminile, di cui non sempre è semplice decifrare il senso; anche perché essa assume di volta in volta forme diverse. Ciò che comunque è evidente è la sua costanza nel tempo. Dall’interdizione della ruota e della forca prevista per le donne dalla Constitutio criminalis di Carlo V (la cosiddetta “Carolina”) del 1532, tracce di questa operazione di attenuazione simbolica si possono rinvenire perfino nel mondo contemporaneo: ad esempio nell’attuale divieto di eseguire la condanna capitale su di una donna incinta, presente ancor oggi ovunque sia prevista la pena di morte. Si può dire che segni di questo genere accompagnino costantemente la storia della pena per le donne, e a seconda del contesto storico e sociale esprimano in qualche maniera una volontà di manifestare un’attenuazione. Potrà essere, come nel codice Napoleone, la possibilità di scontare in un carcere e senza la continua afflizione della catena la pena dei lavori forzati, o quella, prevista dal codice Zanardelli per le donne, purché non recidive, di scontare in casa la pena che non ecceda il mese, beneficio questo, accordato anche ai minori.

Per secoli la punizione di una donna colpevole di qualche grave delitto era stata affidata, anche dopo un pubblico processo, alla responsabilità della famiglia che si incaricava di eseguire in segreto la sentenza (69). Quando la pena passa nella mano pubblica, qualcosa di questo segreto sembra volersi mantenere, si preferisce così per le donne l’annegamento e la vivisepoltura pene con le quali il corpo punito sparisce, così come spariva anticamente nei recessi della casa.

Sembra inoltre che la pena, in certi casi, abbia assunto, se inflitta ad una donna, un valore simile a quello di un giudizio di Dio, che anche se terribile, può comunque – in via ipotetica – lasciare aperta una qualche via di salvezza. Questa via però quando si configura come una attenuazione del supplizio è puramente simbolica e quasi sempre priva di effetti concreti: una cannuccia per “respirare” alla donna sepolta viva (70), che ovviamente prolungherà il supplizio in modo atroce anzichè attenuarne gli effetti, del cibo e dell’acqua alla murata viva condannata a morire d’inedia, la possibilità di essere “immersa” e non annegata, “appesa” e non impiccata. Molti altri elementi suggeriscono che la pena dell’impiccagione – pena per i servi da cui i nobili sono esclusi – sia particolarmente infamante, soprattutto per una donna, ed è forse per questo che si può leggere in qualche cronaca l’orrore che suscita qualcuna di queste esecuzioni (71) e la proposta di risparmiare, anche per ragioni di pudicizia, questa pena alle donne.

Nel ricostruire il senso di queste interdizioni, omogenee come tali pur nella diversità dei contesti storici e culturali da cui sono prodotte, appare evidente che ogni mondo “vede” e “pensa” il corpo femminile e la sua tangibilità o intangibilità in modo diverso. Ed elabora diverse interpretazioni e risposte intorno a questo problema. È chiaro tuttavia, che non solo di pena si tratta, ma di qualcosa di molto più complesso.

Questa donna non si vuole toccata pubblicamente e legittimamente dal carnefice forse perchè appartiene ad un altro uomo – padre, marito, fratello o figlio – cui dovrebbe spettare la punizione? E non è forse il supplizio più accettabile, più adeguato ad un corpo che non appartiene del tutto a se stesso, e che quindi non si può legittimamente toccare, quello dell’occultamento con la vivisepoltura o con l’annegamento, pene capitali “tipiche” in età moderna per le donne, che ne attuano la scomparsa senza che, in apparenza, mano estranea partecipi direttamente all’esecuzione?

La scoperta di un crimine femminile, sembra caricare la collettività del peso di una individualità incontrollata che, prima della trasgressione, era percepita solo come “parte” inglobata in un “tutto” ed ad esso affidata. La pena dà luogo dunque a risposte ambigue e paradossali, si realizza una punizione ma se ne sottolineano le cautele, si castiga e si arretra. Giustiziare pubblicamente una donna, mette in luce l’esistenza e la presenza scomoda di un/a cittadino/a diverso e particolare.

Colei che ha trasgredito, infatti, è portatrice di fertilità; e va sempre comunque ribadito il divieto assoluto di giustiziare una donna incinta. A meno che, come sostengono con macabra consequenzialità alcuni criminalisti, non siano passati almeno quaranta giorni dal parto, o il bambino non sia stato svezzato (72). Bisogna quindi che la comunità e il potere che l’esprime difendano prima di tutto questa dimensione al tempo stesso pubblica e sacra del corpo della donna, lo rispettino almeno esteriormente, trovando un rimedio non troppo “artificiale” – come sarebbe invece il supplizio vero e proprio, visibile, spettacolare, diseconomico – cercando di delegare alla natura un gesto, che si avverte contro-natura.

Non entro nel merito del piu’ complesso, e in parte diverso atteggiamento nei confronti della donna colpevole di un crimine connesso con questioni religiose. In questi casi, la punizione deve essere visibile e pubblica, e assume per la comunità il significato di un rito collettivo, sacrificale ed espiatorio. Si tratta infatti di una trasgressione ben diversa da un semplice reato. La violazione religiosa viene sentita non solo come offesa alla comunità, rottura delle sue regole e dei suoi equilibri, ma soprattutto come minaccia all’intera collettività che potrebbe esserne danneggiata. Non sempre il senso profondo delle diverse forme di esecuzione è univoco e trasparente. Certo è che la pena, che prima della Rivoluzione francese non era “uguale per tutti”, ma minutamente differenziata nella sua astratta previsione come nella sua concreta applicazione a seconda delle differenti condizioni di status, per le donne assume ulteriori e specifiche differenziazioni; anche se non si può dire che l’essere donna sia uno status paragonabile agli altri tipi di status. Più che di attenuare concretamente il supplizio o la pena sembra ci si preoccupi principalmente di dire e di significare in qualche modo questa attenuazione, che sembra corrispondere fondamentalmente alla generica minorità che si attribuisce al femminile.

La diversità femminile infatti, anche se le donne sono state spesso associate ai minori, ai vecchi, ai pazzi e talvolta ai servi, non è stata mai pensata dai legislatori come omologabile alle altre diversità. Essa non va nè spiegata nè giustificata: la sua evidenza la rende non dimostrabile, non tematizzabile, indiscutibile come un assioma o un dato di fatto. Antonio Pertile, nella sua monumentale storia del diritto italiano ancora negli anni ’90 del secolo scorso scrive a proposito delle pene del passato “L’ineguaglianza di trattamento delle varie condizioni di persone, in cui ci siamo imbattuti per entro ad ogni istituto giuridico, ci si para innanzi anche nel sistema penale; e questa ineguaglianza vi è fondata non solo sulle diversità naturali, il che, in massima, può essere conforme a sani principi di economia punitiva, ma eziandio sulle fittizie e sociali. Non sono cioè punite diversamente per lo stesso reato soltanto le donne dagli uomini, ma ben anco i cittadini e i forestieri, i liberi e i servi, i nobili e i plebei: alla qual costumanza quantunque si opponesse qualche giureconsulto, i più l’approvarono appoggiandosi anche alle fonti romane” (73).

7. Il diritto al patibolo

Un senso d’insofferenza per la palese differenziazione che riguarda le donne nella sfera penale è espresso, con grande lucidità, da Olympe de Gouges quando, all’indomani della rivoluzione, introduce nella sua dichiarazione dei diritti delle donne, anche il diritto ad essere punite alla pari degli uomini. (74).

Dopo aver enunciato nell’art.6 il principio di uguaglianza, in forza del quale la legge, “espressione della volontà generale… deve essere uguale per tutti” e “tutte le cittadine e tutti i cittadini, uguali ai suoi occhi, devono poter ugualmente accedere a tutte le cariche, posti e impieghi pubblici, secondo le loro capacità e senz’altra distinzione che quella dei loro meriti e dei loro talenti”, la Dichiarazione di Olympe de Gouges rivendica, come un diritto, l’uguaglianza tra uomini e donne anche di fronte ai rigori della legge penale: “Non si fa eccezione per nessuna donna, che dev’essere accusata, arrestata e detenuta nei casi determinati dalla legge. Le donne sono soggette come gli uomini a questa Legge rigorosa” (art.7). E ancora: “Una volta che la donna è dichiarata colpevole, è sottoposta al pieno rigore della legge” (art.9); “La donna ha diritto di salire il patibolo; deve avere anche il diritto di salire alla Tribuna” (art.10). “La garanzia dei diritti della donna, e della cittadina, – scrive ancora de Gouges – implica una più vasta utilità; questa garanzia deve essere istituita per il vantaggio di tutti, e non per il particolare beneficio di quelle alle quali è concessa”.

Come si vede, nella rottura del principio dell’infirmitas sexus Olympe de Gouges vede un passo importante sulla via della conquista dei diritti femminili, la “Tribuna” e il “patibolo” sono qui chiaramente connessi. Non si possono rivendicare diritti politici senza essere soggette ai rigori della legge, in quanto cittadine. L’affermazione del diritto alla pena è tutt’uno con la rivendicazione della dignità delle donne come cittadine e della loro uscita dalla minorità (75).

Sembra qui di cogliere un’anticipazione della nota tesi di Hegel secondo cui la pena è per il reo un diritto: “la lesione che tocca il delinquente”, scriverà Hegel, “non è soltanto giusta in sé, essa è, insieme, la sua volontà che è in sè, un’esistenza della sua libertà, il suo diritto”: nella pena “il delinquente è onorato come essere razionale” (76). Olympe de Gouges infatti chiede proprio questo per le donne: che se ne onori la razionalità e se ne ribadisca l’appartenenza a pieno titolo nella comunità.

Il nesso tra inflizione della pena ed appartenenza a pieno titolo ad una comunità è stato messo in evidenza recentemente anche da Elizabeth H. Wolgast che scrive: “Senza la comprensione del trasgressore, il castigo è privo di senso morale, e pertanto della sua più forte giustificazione morale. La comprensione morale di un trasgressore va quindi ritenuta un aspetto dell’appartenenza alla comunità che egli offende […]. La percezione dell’aspetto morale del castigo è collegata alla visione di sè quale membro di una comunità […] la legge infranta ha uno statuto proprio all’interno della comunità che comprende anche il trasgressore, anche nel momento in cui lo punisce. Un malfattore fa parte della comunità non ne è il nemico o l’avversario e, appunto in quanto appartenente, viene punito” (77).

Forse è possibile interpretare le ambivalenze che si registrano quando una collettività deve infliggere una pena ad una donna proprio in questa chiave: le donne fanno parte della comunità in modo ambiguo, e certamente non con la stessa pienezza dei maschi; a volte sono inglobate in essa a volte ne sono escluse. La loro sfera di appartenenza è partecipe della comunità, ma solo in quanto legata in modo fondamentale e subalterno alla famiglia. Esse incarnano insieme l’inferiorità sociale, e una sublime vicinanza al sacro in quanto portatrici di vita. Sono quindi intoccabili pubblicamente, perchè insieme sacre e inferiori. Si preferisce perciò delegare il loro controllo alla famiglia, unica entità sovrana cui le lega un vero patto. Quando, per qualche ragione, questo controllo viene meno o chi lo esercita preferisce delegarlo al potere pubblico, si manifestano i meccanismi ambigui della punizione sotto il segno della politica dell'”attenuazione simbolica”.

C’è poi un altro aspetto, del controllo sociale esercitato sulle donne mediante la mano pubblica dell’intervento penale. Questo controllo sembra riguardare prevalentemente le donne senza una solida guida familiare. Si tratta cioè di un controllo “estremo”, che scatta e si applica solo quando ogni altro – quello domestico, quello religioso quello dettato dalla femminile etica della responsabilità (78) difettano o falliscono. Sono insomma soltanto le donne che sfuggono a questi diversi ordini di controllo, quelle che vengono più facilmente criminalizzate.

8. Disuguaglianza e diritto

L’evidenza naturale della diversità delle donne, ha giustificato in passato e reso a priori possibili e praticabili tutte le ipotesi di differenziazione, rispetto ai maschi, nella applicazione della pena.

Altri elementi di differenziazione possono essere rinvenuti anche nella costruzione stessa di alcune figure di reato. Si pensi, ad esempio, alle diverse discipline dell’adulterio, all’obbligo di dichiarare il proprio stato di gravidanza (79), alla creazione per le donne dei reati connessi all’aborto, all’infanticidio (80) al problema del governo della prostituzione, alle alterne vicende del divieto della ricerca della paternità e ancora – anche se fuori dall’ambito penale – al ruolo di disciplinamento del costume femminile che assumono in età moderna le antiche leggi suntuarie (81) alla regolazione del lutto delle vedove. A questo proposito mi sembra assai interessante e sintomatico il fatto che comunemente non si rilevi, e che anzi venga data come ovvia e naturale, una differenziazione assai importante riguardante la disciplina del matrimonio, presente nel diritto civile vigente, che richiama caratteristici elementi di arcaicità che si trovano spesso associati alla vita delle donne come cittadine. Mi riferisco al divieto di contrarre un secondo matrimonio prima che sia trascorso un adeguato tempo di “lutto vedovile”. Alla base del divieto vi è la proibizione della turbatio sanguinis che tutelerebbe errate attribuzioni di paternità a causa della incertitudo seminis. (82).

Non approfondirò qui le ragioni di tale divieto. Basti ricordare che a partire dal diritto romano esse si configuravano principalmente in due ordini di considerazioni, da un lato il rispetto per la convenienza e la decenza, cioè per la memoria del marito morto, quale religio priori viro dall’altro le questioni ereditarie. La donna che si risposava prima del tempo non tenendo conto dei dieci mesi di lutto, andava incontro all’infamia e a sanzioni patrimoniali. Questo sistema, attraversando indenne secoli e secoli è giunto pressoché intatto fino a noi. Il codice civile (Articolo 89, Divieto temporaneo di nuove nozze) vieta infatti alla vedova di passare a seconde nozze, prima che siano trascorsi trecento giorni dallo scioglimento o dall’annullamento del precedente matrimonio. Vi possono essere ovviamente alcune deroghe, come quella ad esempio che la donna abbia partorito o che il precedente matrimonio sia stato annullato per impotenza del coniuge, ma resta comunque il fatto che nel caso di inosservanza del divieto si applica una sanzione penale (articolo 140 del codice civile) a carico degli sposi e dell’ufficiale di stato civile. L’articolo 102 del codice civile attribuisce anche ai parenti del precedente marito il diritto di opporsi alla celebrazione anzitempo del nuovo matrimonio. Mi sembra che qui, dietro le motivazioni di carattere patrimoniale ed ereditario che sembrano aver informato l’opera del legislatore – a partire dal mitico re Numa Pompilio primo autore, come sembra, della legge sul lutto vedovile, fino ai nostri contemporanei – si nasconda qualcosa di più importante e profondo: il timore tipico delle culture patriarcali, del potere femminile che si manifesta da una parte nel generare, nell’esser madre in modo certo, dall’altra nel nominare, e quindi nel decidere la paternità.

Esempi di diritto “disuguale” si possono ovviamente trovare nel mondo contemporaneo anche in molte altre leggi, e basterebbe la legge dell’aborto a farcelo ricordare. Si pensi alle norme che regolano il lavoro femminile, al diritto di famiglia, alle leggi in vigore fino a poco tempo fa in tema di estensione della cittadinanza al coniuge. Ma un caso di disuguaglianza permane anche nel penale: il reato di infanticidio che comporta una pena praticamente diversificata. In quasi tutte le legislazioni europee, l’infanticidio viene configurato come un reato proprio della madre, commesso nell’immediatezza del parto quando la donna viene supposta in menomate condizioni fisio-psichiche. In alcuni codici viene semplicemente stabilita, per la madre infanticida, una pena più mite di quella prevista per l’omicidio. In altri, come in quello italiano esisteva addirittura una figura di “infanticidio per causa d’onore” punito “con la reclusione da tre a dieci anni”, oggi sostituito, nell’attuale formulazione dell’articolo 578 del codice penale, dall'”infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale” che punisce la madre con una pena “da quattro a dodici anni”, e cioè con una misura comunque inferiore a quella prevista per gli eventuali correi anche se “hanno agito al solo scopo di favorire la madre” (83).

Circola inoltre da vari anni, soprattutto in area anglosassone, una ipotesi riconducibile a un diritto di tipo “differenziato”, che si esprime soprattutto in campo penale. Mi riferisco al concetto di “sindrome pre-mestruale” o di PMT (Pre-menstrual tension), come comunemente viene indicata, che identificherebbe in alcune donne una vera e propria malattia connessa con il ciclo mensile. Questo concetto, forse utile nel campo del diritto del lavoro per garantire alle donne una migliore tutela della loro salute, può generare, se generalizzato ed usato in altri campi, primo fra tutti il penale, esiti assai pericolosi. Si è voluto sostenere infatti che alcune donne vedono aumentare, a causa della PMT, la loro aggressività e si è tentato perciò di utilizzarla come attenuante della responsabilità, in alcuni processi penali soprattutto in Inghilterra. Il risultato, se questa “attenuante” venisse introdotta, sarebbe francamente inaccettabile: si costituirebbe una sorta di generalizzato favor rei nei confronti delle donne, sottintendendo però una capacità di intendere e di volere diminuita, sia pure per un periodo di tempo determinato. Le conseguenze sarebbero pesanti per non dire catastrofiche: il ritorno delle donne, sul piano giuridico, ad uno stato di minorità e di inferiorità permanente che non potrebbe non avere conseguenze, ovviamente, anche in altri ambiti di esercizio della libertà femminile (84).

9. Un diritto di genere

Come si è visto, il “femminile”, per il diritto, è stato per secoli un “sesso infermo”, da governare e tutelare, per il senso di minorità e di mancanza ad esso sempre associato. Ne è una riprova la millenaria impossibilità per le donne – che il diritto ha sancito – di rappresentare altri se non se stesse. Alle donne sono state vietate le cariche pubbliche quali forme di rappresentanza di altri e dei loro interessi (85). È stato precluso l’esercizio dell’avvocatura come assunzione di una difesa non in proprio ma pro alio. La stessa tutela dei figli da parte delle madri è stata oggetto di contrasti e diatribe e di una lunghissima conflittualità femminile, risoltasi spesso con soluzioni compromissorie (86).

Le donne, ancora, sono state escluse dal potere di denunciare e di accusare per reati commessi in danno di estranei (87). Non hanno potuto essere giudici, perché avrebbero incarnato una sovranità delegata da altri (88), e analogamente neppure soldati o poliziotti perché non abilitate a rappresentare l’ordine, l’autorità e la forza del popolo o del sovrano. Anche il divieto di essere testimoni, che in varie forme è stato negato alle donne, sembra esprimere questa congenita impossibilità (89).

Qual è il senso di questa imposizione di non -continuità, di non – relazione con l’altro? Sul piano simbolico la donna esprime una relazione di continuità paradigmatica, fondamentale con l’altro da sé perché lo genera. L’esclusione giuridica da ogni altra forma di rappresentanza e di tutela, nella vita pubblica come in quella civile, nasce allora, probabilmente, dall’esigenza di porre un limite a questa originaria e fondamentale continuità con l’altro.

Esclusa da funzioni rappresentative, la donna è sempre stata, dal diritto, fatta oggetto di rappresentanza e di tutela, oltre che di menomazione e di esclusione. Oggi il diritto concede l’inclusione. E di nuovo prospetta funzioni di tutela, sia pure a favore dell’uguaglianza tra uomini e donne. È chiaro che tutto questo non può non suscitare diffidenza. Di qui l’ipotesi e l’esigenza di una nuovo paradigma giuridico, di una teoria alternativa in grado di elaborare e rifondare “fonte e principi di un nuovo diritto” (90).

Ma un diritto nuovo, ove si prospetti come “diritto differenziato”, rischia sempre, pur se finalizzato a dar valore alla differenza, di ribadirla come minorazione. Non si tratterà più di discriminazioni, ma al contrario di tutele contro le discriminazioni. Ma sarà pur sempre un modo di sancire una minorazione. È su questo piano, quello del diritto disuguale o differenziato, che si sono mosse in passato le leggi di dominio patriarcale. Ma è ancora su questo stesso piano che si muovono gli interventi di azione positiva, che ci propongono una legislazione di tipo emancipazionista informata all’idea di una “funzione promozionale” del diritto anche per le donne. Si tratta di un piano insidioso, dalle possibili valenze regressive, fatto oggetto da tempo di critica acuta ed attenta da parte delle donne.

Più feconda, anche se più difficile e problematica, è a mio parere l’ipotesi, del tutto diversa, di un nuovo diritto come “diritto di genere”, legato al riconoscimento e alla garanzia di diritti fondamentali che dall’appartenenza di genere traggono una parte almeno del loro senso e della loro portata normativa. Solo in una simile prospettiva, infatti, si possono prefigurare nuovi assetti in cui possano liberamente manifestarsi e avere peso autorità e sapere femminile.

Certo, le difficoltà che si oppongono a una simile ipotesi sono molte: prima tra tutte una sorta di inadeguatezza del diritto a tematizzare, nella sua complessità, il concetto stesso di “genere”. L’attribuzione di diritti ad un gruppo – o meglio a persone in quanto appartenenti ad un gruppo unito da comunanza culturale e interni vincoli normativi – al fine di garantirne l’identità differente, è un’operazione possibile, anche se non semplice, che può informarsi ai principi liberali dell’autonomia, della tolleranza e, oggi, anche al modello del pluralismo giuridico (91). Ma le donne non sono un gruppo. Il genere non è legato ad identità culturale né cementato da vincoli normativi che non siano quelli, “politici”, liberamente costruiti tra donne. Né può essere paragonato ad altre forme di “identità differenti”, proprie di minoranze o di gruppi oppressi, che pure richiedono “protezione”: se non altro perché il genere non è una “identità-differente” che possa, come le altre, essere rimossa, o superata, o neutralizzata, o compensata. La differenza di genere è irriducibile. Le donne sono irriducibilmente diverse dagli uomini e viceversa. Il principe, scrive Wolgast (92), può cambiarsi con il povero, ma non può cambiarsi con una donna, fosse pure una principessa.

“Diritto di genere” vuol dire allora, semplicemente, che donne e uomini sono individui portatori di diritti fondamentali sessuati. Sembrerebbe una cosa ovvia. Eppure si avverte, una gran paura, come se declinare i diritti a seconda del sesso rischiasse d’infrangere in qualche modo il principio di uguaglianza e di condurre, perciò, a qualcosa di regressivo. Ma proprio l’uguaglianza non può essere realizzata tra generi se non si supera la logica della mera tutela propria del diritto differenziato e non ci si muove “sopra la legge”, da un orizzonte che la trascende (93). La tutela infatti, finisce sempre per ricalcare non già il paradigma della differenza-diversità, ma quello della differenza-inferiorità della minorità biologica di triste memoria. Se un’indicazione possiamo trarre dal passato, essa è sicuramente quella di evitare gli ambigui percorsi della tutela e del diritto differenziato, poco importa se oggi riproposti con lodevoli intenzioni.


Note

*. Pubblicato in “Democrazia e diritto”, 1993, 2, pp.99-143.

Traduzione spagnola di Mary Beloff e Christian Courtis, Infirmitas sexus. La mujer en el imaginario penal, in “Nueva Doctrina Penal”, 1999 / A, pp.55-95; ristampato in A.E.C. Ruiz (a cura di) Identidad femenina y discurso juridico, Editorial Biblos, Buenos Aires 2000, pp.135-177.

1. Si veda, in questo fascicolo, l’analisi e la rassegna dei diversi contributi sul tema svolta da Tamar Pitch.

2. A.Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, in Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987; Id., L’ordine dell’uno non è l’ordine del due, in Il genere della rappresentanza, a cura di M.L.Boccia e I.Peretti, Editori Riuniti, Roma 1988, pp.67-80. È interessante rilevare che nella Magna Charta del 1216, che contiene la prima enunciazione di diritti “universali”, la donna viene espressamente menzionata per escluderla dal diritto di denuncia e di accusa (vedi, infra, la nota 87).

3. Scrive infatti Carmignani nel suo Elementi di diritto criminale, (1808), tr.it. dal latino di G.Dingli, Stab.Tip. P.Androsio, Napoli 1854, p.56: “Egli è certo dietro le osservazioni dei fisiologi, che gli organi della generazione hanno molta influenza su quelli che servono all’intelletto. Nelle femmine la midolla spinale è più debole e delicata che non lo è nei maschi. Quindi han quelle più deboli le forze dello spirito e più fermi i mezzi di acquistare le idee fornite loro dalla natura. Ciò posto il sesso femminile è pure una giusta causa perchè il delitto venga all’agente meno imputato”. Un’analisi delle dottrine giuridiche dell’inferiorità della donna è sviluppata da M.Manfredi e A.Mangano, Alle origini del diritto femminile. Cultura giuridica e ideologie, Dedalo, Bari 1983. Di grande interesse è inoltre V.P.Babini, Il lato femminile della criminalità, in V.P.Babini, F.Minuz e A.Tagliavini, La donna nelle scienze dell’uomo. Immagini del femminile nella cultura scientifica italiana di fine secolo, Angeli, Milano 1989.

4. Va ricordata – contro le soluzioni semplicistiche proposte dal positivismo ottocentesco dell’enorme problema del dilemma tra determinismo e libero arbitrio – la voce dissonante (tacitata dal suo internamento in manicomio) di H.von Druskowitz, Sono possibili la responsabilità e l’imputabilità senza supporre il libero arbitrio?, (1887), tr.it. di M.G.Mangione, in Una filosofa dal manicomio, Editori Riuniti, Roma 1993, pp.5-32.

5. Si veda J.Bury, Storia dell’idea di progresso (1932), tr.it. di V.Di Giuro, Feltrinelli, Milano 1984.

6. Le espressioni “fragilitas sexus”, “infirmitas sexus”, “sexus infirmus” e “imbecillitas sexus” compaiono in taluni luoghi romanistici: C. 5,3,20,1; D. 22,6,9; D. 16,1,2,3; D. 49,14,18. Ma esse ebbero anche fortuna presso i padri della Chiesa, da S.Girolamo a S.Agostino, e poi nella letteratura canonistica. Si veda, sul punto, la recensione di M.T.Guerra Medici del libro di G.Minnucci sulla capacità processuale della donna nel pensiero canonistico, in “Studi senesi”, CIII, I, 1991, pp.170-174.

7. “Feminae ab omnibus officiis civilibus vel publicis remotae sunt et ideo nec iudices esse possunt nec magistratum gerere nec postulare nec pro alio intervenire nec procuratores existere” (D. 50, 17, 2). Sull’interdizione a Roma delle donne dai “virilia officia”, cfr. E.Cantarella, La vita delle donne, in Storia di Roma, a cura di A.Momigliano e A.Schiavone, Einaudi, Torino 1989, vol.IV, pp.557-608. Per quanto riguarda l’avvocatura, Cantarella ricorda che durante la repubblica vi furono casi sia pure eccezionali nei quali le donne sostennero direttamente in giudizio le loro ragioni, ma che sempre fu loro vietato di “postulare pro aliis”.

8. Cfr. S.Solazzi, “Infirmitas aetatis” e “infirmitas sexus”, (1930), in Scritti di diritto romano, Jovene, Napoli 1960, vol.III, pp.357-367.

9. Prospero Farinacci (1544-1618) scrive: “Decima causa minuendi penam erit ea, quae sexus fragilitatem respicit: Regula enim est, mulieres non sic graviter puniendas, quam mares, ac in poenis infligendis sexus rationem habendam […] Tiraquellus qui hanc conclusionem, et causam bene comprobat […] ea potissimum ratione ductus, quia in foemina minus est rationis quam in viro […] ergo minus puniri debet” (Praxis et theorica criminalis, II, I, Quaestio 98, n.1, Venezia 1604, p.309).

10. André Tiraqueau (1480-1558), italianizzato in Tiraquello, seguendo un costume assai diffuso tra i giuristi invoca anche l’autorità della sapienza antica: “Nam divinus ille Plato dubitare videtur, utro in genere mulierem, rationalium animalium, an Brutorum” (A.Tiraquello, De legibus connubialibus et iure maritali, L 1, n.69, Lione 1554).

11. Anche l’olandese Anton Matthaeus (1601-1654) afferma: “Aliquo lenius agendum cum muliere propter infirmitatem tum corporis, tum animi, atque consilii. Qua animi infirmitate fit ut quemadmodum facile labitur, ita etiam facilius poenae cogitatio a peccando eam absterreat” (De criminibus, (1644), Anversa 1771, Tit. XVIII, cap. IV, 21). Filippo Maria Renazzi (1747-1808), a sua volta, pone il sesso tra le varie cause intrinseche di attenuazione della pena: “Aetatem sequitur sexus, qui non secus ac illa generatim habetur pro intrinseca caussa temperandi poenas. (Tiraquel. caus.IX) Feminae siquidem hominum voluptati, et procreationi a natura destinatae, cum corpore utantur molli, ac delicato, consilii maturitate indigent, animique vigore, qui a corporis compage et robore vel maxime pendet. Itaque viris animo et corpore longe imbecilliores non adeo, ut illi, nequiter agere, minorique quodammodo dolo videntur delinquere. Propterea existimandum leges suum non aeque ac in mares, in feminas quoque rigorem exercere. Aequum enim est sexus infirmitatis misereri; ex quo fit ut mitius sit leniusque cum feminis agendum” (Elementa juris criminalis, (1773), Bologna 1826, pp.119-120).

12. E.Spangenberg, Del sesso femminile, considerato relativamente al diritto ed alla legislazione criminale, in Scritti germanici di diritto criminale raccolti da F.A.Mori, Nanni, Livorno 1846. Nella raccolta sono pubblicati, tra l’altro, saggi di C.J.A. Mittermaier e di Waechter sull’infanticidio.

13. Ivi, p.165.

14. Ivi, p.166-167.

15. Ivi, p.168.

16Ibid.

17Ibid.

18. Ivi, p.169.

19Ibid.

20. Ivi, pp.169-170.

21. Ivi, pp.171-172.

22. Ivi, p.174.

23. Ivi, p.176.

24. Ivi, pp.178-179.

25. Ivi, p.180

26. Ivi, pp.180-181. “Lo stesso è da dire”, prosegue Spangenberg, “di quei delitti, in cui ha luogo la seduzione altrui, ed ai quali serve di fondamento una particolar propensione del sesso, come la vanità e la mania di piacere”: “esempigrazia”, precisa in nota, “il furto di gioielli e di vesti, non per avidità di guadagno, ma per desio d’ornamento”.

27. F.Carrara, Programma del corso di diritto criminale, (1857), X ed., Cammelli, Firenze 1907, I, p.232: “Sarà minore il numero delle donne che delinquono; ma la donna che ha delinquito, appunto perchè la eccezione è più rara, bisogna dirla più corrotta e malvagia dell’uomo che fa altrettanto: o per lo meno bisogna dirla ugualmente responsabile, e tanto basta. Affermisi pure se vuolsi, che le donne sono più morali degli uomini perchè più raramente delinquono; ma la donna che ha delinquito non può trovare scusa alla sua immoralità nella moralità delle sue compagne”.

28. Sul dibattito tra ginecologi, psichiatri e criminalisti – tutti di fede positivista – cfr. V.P.Babini, F.Minuz e A.Tagiavini, op. cit.

29. E.Ferri, Prefazione a B.Fera, La donna e la sua imputabilità in rapporto alla psicologia e patologia del suo apparato genitale, Athenaeum, Roma 1913, pp.3-5. Muovendo dalla tesi che “la personalità organica e psichica della donna è la risultante della sua grande funzione specifica, la maternità… che esige dalla donna non l’attimo fuggente di voluttà che dà l’uomo, ma il sacrificio organico della gravidanza, del parto, del puerperio e dell’allattamento, si spiega”, secondo Ferri, “come la donna resti nel suo sviluppo personale fra il fanciullo e l’uomo adulto”. Questa spiegazione, avverte Ferri, in quanto connette alla maternità sia “talune superiorità” della donna sull’uomo, “come lo spirito di sacrificio e l’altruismo”, sia “le aberrazioni individuali e sociali della donna” parimenti legate alle “condizioni patologiche degli organi della maternità”, non è solo un’acquisizione scientifica ma è anche “di un’importanza decisiva e suprema, così per il benessere materiale e morale delle famiglie, come per la vita sociale, come per la giustizia civile e penale”. E rappresenta la base per una riforma penale che, nella prospettiva di “una giustizia penale più veramente umana” e “regolata dalle speciali condizioni della donna”, si fondi sulla necessità che “anche per le donne delinquenti bisogna che la clinica criminale adotti e adatti particolari provvedimenti”, secondo il principio generale che “ad ogni categoria di delinquenti” devono sempre “adattarsi i provvedimenti di profilassi e di difesa che corrispondano alle loro particolari condizioni personali di riadattibilità sociale”.

Il nesso tra funzioni intellettive e funzioni riproduttive delle donne era già stato sostenuto da E.Spangenberg, op.cit., pp.169-170. La tesi sarà ripresa e sviluppata da Herbert Spencer: cfr. A. Rossi Doria, Le idee del suffragismo, in Id. (a cura di), La libertà delle donne. Voci della tradizione politica suffragista, Rosenberg e Sellier, Torino 1990, p.302.

30. C.Lombroso e G.Ferrero, La donna delinquente. La prostituta e la donna normale, (1892), V ed. F.lli Bocca, Torino 1927.

31. Sul modo in cui lavorava Lombroso con sua figlia Gina, cfr. il bel libro di D.Dolza, Essere figlie di Lombroso. Due donne intellettuali tra ‘800 e ‘900, Angeli, Milano 1990.

32. C.Lombroso e G.Ferrero, op.cit., p.446.

33Ibid.

34. E.Ferri, La teorica dell’imputabilità e la negazione del libero arbitrio, Barbera, Firenze 1878, pp.583 ss.

35. E.Ferri, loc. cit.

36. Si veda, per esempio, G.Michelet, La donna, (1856) Libreria editrice moderna, Genova 1914, p.18: “La legge civile dichiara la donna inferiore all’uomo e la condanna ad un’eterna interdizione. L’uomo si è costruito abusivamente suo tutore: ma quando si tratta deglierrori ch’essa può commettere, delle pene nelle quali può incorrere, oh! allora la donna è trattata come se fosse maggiorenne, ed è tenuta severamente responsabile di tutte le sue azioni. Eterna contraddizione delle antiche leggi barbariche! Ella è ceduta altrui come una cosa, ma punita come una persona”. La stessa tesi fu sostenuta dal medico-legale G.Morache in un saggio intitolato La responsabilité criminelle de la femme différente de celle de l’homme e apparso su “La Revue” del 15 settembre 1901, nel quale, tra l’altro, egli critica i calcoli statistici di Lombroso, che gonfiavano quantitativamente la criminalità femminile facendovi rientrare la prostituzione e riprende tuttavia la tesi della particolare labilità della psiche femminile partendo dalla tossicità post-partum per poi considerare gli altri “periodi” di instabilità femminile. Su quest’ultima questione, si veda anche, di G.Morache, Grossesse et accouchement, étude de socio-biologie et de médecine légale, F.Alcan, Paris 1903.

37. F.Puglia, Le donne delinquenti e la legge penale, in “La Scuola Positiva nella giurisprudenza penale”, III, 1893, p.585.

38Ibid.

39Ibid.

40. Ivi, p.586.

41Ibid.

42. Ivi, p.588.

43Ibid.

44. Così, per esempio Tancredi Canonico pone il sesso tra le altre “considerazioni che consigliano una diminuzione nel grado della pena”: “Parlando del grado del reato, già abbiamo riconosciuto che nè la vecchiaia nè il sesso femminile non sono cause che scemino l’imputabilità: perchè la maggiore debolezza o la maggiore sensibilità nell’organismo non diminuisce la pienezza nè dell’intelletto, nè della libera volontà. Ma questa minore vigoria fisica renderebbe in realtà più pesante pel vecchio e per la donna la pena ordinaria: per conseguenza esige una diminuzione nel grado della pena. La medesima cosa si dica di quelle altre fisiche debolezze che venissero da infermità o da gracilissima costituzione. Per ciò i Romani raddolcivano pel vecchio la pena corporale, non la pecuniaria. Per ciò il codice penale del 1859 stabilisce che sia mitigata la pena dei lavori forzati pel settuagenario, per la donna, e per chi fosse riconosciuto fisicamente inetto al genere di lavori prescritti” (Del reato e della pena in genere. Memorie delle lezioni, Utet, Torino 1872, p.329).

45. Cfr. M.Manfredi e A.Mangano,op. cit., p. 46; V.Babini, op. cit., pp.29 ss.

46. Edito per la prima volta nel 1904 dall’associazione “Per la donna” e in seguito nel 1908 a cura del Consiglio nazionale delle donne italiane, in occasione del primo Congresso femminile nazionale delle donne italiane, l’opuscolo, stampato su due colonne, da un lato riporta gli articoli più significativi del codice civile e di quello penale, dall’altro lato il commento. La figura di Valeria Benetti è ricordata da F.Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia. 1848-1892, Einaudi, Torino 1963, pp.266 e 275 e da M.De Giorgio, Le italiane dall’Unità a oggi, Laterza, Bari-Roma 1992, pp.13 e 331. Cfr. anche M.Manfredi e A.Mangano, op.cit., p.53.

47. V.Benetti, La donna nella legislazione italiana, cit., p.47

48. Ivi, pp.48-49.

49. Ivi, p.68.

50. Cfr. L.Guidi, L’onore in pericolo. Carità e reclusione femminile nell’ottocento napoletano, Liguori, Napoli 1991, p.44.

51. S.Cavallo, Assistenza femminile e tutela dell’onore nella Torino del XVIII secolo, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, XIV, Torino 1980, pp.142-143.

52. L.Guidi, op.cit., pp.48-49. Cfr. anche A.Groppi, “Un pezzo di mercanzia di cui il mercante fa quel che ne vuole”. Carriera di un’internata tra Buon Pastore e manicomio, in Subalterni in tempo di modernizzazione. Nove studi sulla società romana dell’Ottocento, in “Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso”, VII, 1983-1984, Franco Angeli, Milano 1985.

53. L.Guidi, op. cit., p.47.

54. Ivi, p.46.

55. Si veda, di E.Fry, Observations on the Siting, Superintendance, and Government, of Female Prisoners, Arch, London 1827. Sull’opera di Elizabeth Fry, cfr. R.P.Dobash, R.E.Dobash, S.Gutteridge, The Imprisonment of Women, Basil Balckwell, Oxford 1986, pp.41-56 e passim.

56. Su queste iniziative riformatrici della marchesa Giulia di Barolo, cfr. P.Galli, Assistenza e internamento. Il caso di Torino: Giulia di Barolo e le donne carcerate, in La scienza e la colpa. Crimini, criminali. criminologi: un volto dell’Ottocento, a cura di Umberto Levra, Electa, Milano 1985, p.194. Cfr. anche R.Canosa e I.Colonnello, Storia del carcere in Italia, Sapere 2000, Roma 1984, p.102, che riporta taluni articoli del regolamento della casa di Borgo Dora: in particolare l’art.1, che stabiliva: “Si riceveranno nella casa di ricovero solamente povere donne o zitelle giuridicamente od economicamente punite, ovvero colpevoli, ma ravvedute de’ loro falli che desiderino volontariamente di darsi a stabile lavoro, ed avranno dato non dubbie prove di pentimento”. Alle internate era fatto obbligo di osservare le regole della casa sotto pena di esserne espulse “e bisognando secondo il loro mancamento saranno rimesse all’autorità competenti per essere castigate”; e l’art.6, che attribuiva alla superiora il potere di “determinare se alcuna delle ricoverate abbia dato bastante saggio di sua perseveranza nella conversione, e di speranza di condotta savia e morigerata per l’avvenire, per poterle permettere di collocarsi in matrimonio o di stabilirsi altrimenti al servizio di qualche famiglia o nell’esercizio di qualche arte o mestiere”. Cfr. inoltre T.Canonico, Cenni biografici sulla vita intima e sopra alcuni scritti inediti della Marchesa Giulia Falletti di Barolo-Colbert, Torino 1864, citato da M.Beltrani-Scalia, Sul governo e sulla riforma delle carceri in Italia, Tipografia G.Favale, Torino 1867, p.418.

57. G. de Beaumont e A. de Toqueville, Le système pénitentiaire aux États-Unis et son applications en France, suivi d’un appendice sur les colonies pénales et des notes statistiques [1833], in A.de Toqueville, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris. 1984.

58. Cfr. P.Casana Testore, Le riforme carcerarie in Piemonte all’epoca di Carlo Alberto, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, XIV, Torino 1980, pp.281-329. All’indomani dell’Unità la legislazione sabauda del 1859 verrà estesa a tutta la penisola, eccettuata la Toscana in attesa che con il nuovo codice penale, promulgato poi nel 1889, venisse risolta la questione della pena di morte, prevista dal codice sardo-italiano ed esclusa invece da quello toscano. E naturalmente la gestione del carcere, parte organica della riforma penale, sarà ovviamente estesa, anche se con le opportune modifiche, anche al resto d’Italia. Cfr. anche C.Ghisalberti, La codificazione del diritto in Italia 1865-1942, Laterza, Bari 1985.

59. C.I.Petitti di Roreto, Della condizione attuale delle carceri e dei mezzi di migliorarla, G.Pomba, Torino 1840, pp.35-37.

60. Ivi, p.35.

61. Ivi, pp.313-314.

62. Ivi, pp.308-309.

63. Ivi, p.308.

64. Citato da V.Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, Utet, Torino 1931, vol.I, p.37.).

65De relaxatione carceratorum, in Repertorium per Ioan. Bap. Ziletum, Venezia 1580, p.312.

66Trattato cit., vol.III, p.480.

67. Per avere un’idea del potere che le religiose hanno avuto fino ai giorni nostri all’interno delle carceri femminili, e che da solo è valso a caratterizzarle, basterebbe leggere qualche articolo del regolamnto per gli istituti di prevenzione e pena emesso nel 1931 a seguito dell’entrata in vigore, l’anno prima, del codice Rocco. Questo regolamento si segnala per alcune disposizioni non secondarie che riguardano le donne; prima di tutto il potere del medico, arbitro – quando c’è – di molti aspetti della vita quotidiana femminile, tra cui ad esempio le punizioni (da tre a dieci giorni a pane, acqua, e pancaccio) che non possono avere esecuzione senza il suo parere favorevole (art.154); in secondo luogo il potere delle suore e delle guardiane, attraverso cui le detenute hanno l’obbligo di passare per esporre i propri reclami, a differenza dei detenuti di sesso maschile che possono rivolgersi “direttamente” al direttore (art.91).

68. Si veda questa interpretazione dell’origine e della funzione della pena in E.Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Latreza, Roma-Bari 1992.

69. E.Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Rizzoli, Milano 1991, pp.129-146.

70. H. von Hentig, La pena. Origine, scopo e psicologia, (1932), tr.it. di M.Piacentini, F.lli Bocca, Milano 1942, p.114.

71. Sul significato dell’impiccagione delle donne, cfr. N. Loraux, Come uccidere tragicamente una donna, tr.it. di P.Botteri, Laterza, Roma-Bari 1989; E.Cantarella, op. cit., pp.19 ss; Y.Thomas (a cura di), Du châtiment dans la cité. Supplices corporales et peines de mort dans le monde antique, in “Collection de l’École francaise de Rome”, vol. IX, Roma 1984. Cfr. inoltre le cronache di impiccagioni femminili in H.von Hentig, op. cit. p.91, e in B.Geremek, Mendicanti e miserabili nell’Europa moderna. (1350-1600), Laterza, Bari 1989, pp.113-114.

72. Scrive per esempio Andrea d’Isernia (1220?-1316) “Mulier si est pregnans, et est damnanda propter delictum, differtur iudicium post 40 dies postquam peperit” (cit. da V.Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, cit., p. 37 nota). C.Ginzburg riferisce che nel 1321, in un editto con cui Filippo V il Lungo aveva ordinato il rogo dei lebbrosi accusati di aver avvelenato fontane e pozzi, le donne lebbrose furono parimenti condannate ad essere bruciate a meno che non fossero gravide, nel qual caso dovevano essere segregate fino al parto e allo svezzamento dei figli e poi bruciate (Storia notturna. Una decifrazione del Sabba, Einaudi, Torino 1986, p.6). L’art.27 del codice Napoleone stabilì che “si une femme condamnée à mort se déclare et s’il est vérifié qu’elle est enceinte, elle ne subira la peine qu’après sa délivrance”.

73. A.Pertile, Storia del diritto penale, in IdemStoria del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, vol.V, Utet, Torino 1892, p.407.

È comunque interessante osservare come Johann Wier – medico tedesco del XVI secolo che contestò ripetutamente la legittimità dei processi alle streghe – criticò i supplizi inflitti alle donne accusate di stregoneria come una strana eccezione alla regola generale secondo cui, a causa dell’infirmitas sexus, le donne dovevano essere punite meno severamente degli uomini: “Huc accedit, quod mulieres minus puniendas esse viris in eodem delicti genere, ceteris tamen per omnia paribus, universus legum consensus velit, nimirum ob animi, mentis et ingenij imbecillitatem, et sexus infirmitatem” (J.Wier, De lamiis liber: item de commentitiis ieiuniis, Basilea, 1582, col.90; tr.it. di A.Tacus, Le streghe, Sellerio, Palermo, 1991, p.113)

74. O. de Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791), in 1789-1989. Donne e Rivoluzione: un cammino di libertà, Udi, Circolo “La Goccia”, Roma 1989. Su Olympe de Gouges, cfr. da ultimo U.Gerhard, Sulla libertà, uguaglianza e dignità delle donne: il “differente” diritto di Olympe de Gouges, in G.Bonacchi e A.Groppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Laterza, Bari-Roma 1993, pp.37-58; V.Fiorino, Essere cittadine francesi: una riflessione sui principi dell’89, ivi, pp.59-86.

75. Mentre il codice penale del 1791 e l’Ordonnance criminelle del 1670 avevano escluso le donne dalla pena delle “galere” e da quella dei “ferri”, l’art.16 del codice Napoleone stabilì anche per le donne la pena dei lavori forzati, con cui venivano sostituite le vecchie galere, aggiungendo tuttavia che essa doveva essere scontata all’interno di un carcere senza catena né palla al piede (M.Carnot, Commentaire sur le code pénal, Warée, Paris 1823, t.I, pp.40 e 80).

76. G.W.F.Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, tr.it. di F.Messineo, Laterza, Bari 1954, 100, p.97.

77. E.H.Wolgast, La grammatica della giustizia, tr. it. di Sylvie Coyaud, Editori Riuniti, Roma 1991, p.175

78. Sull’etica femminile della responsabilità, cfr. C.Gilligan, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987.

79. G.Pomata, In scienza e coscienza. Donne e potere nella società borghese, La Nuova Italia, Firenze 1979, p.33. Sulle déclarations de grossesse si veda J.Depauw, Amour illégitime et société à Nantes au XVIIIe siècle, in “Annales ESC, “XXVII 1972, p.1155.

80. R.Selmini, Profili di uno studio storico sull’infanticidio, Giuffré, Milano 1987.

81. D.Owen Hughes, La moda proibita. La legislazione suntuaria nell’Italia rinascimentale, in “Memoria”, 11-12, 1984, pp.82-105. Si veda anche, sulla diversa punizione di uomini e donne in materia di prostituzione e di adulterio, K.Thomas, The double standard, in “Journal of the History of Ideas”, 20, 1959, pp.195-216.

82. Cfr. G.Ferri, Lutto vedovile, in “Novissimo Digesto”, Utet, Torino 1963, pp.1119-1121. Si veda anche E.Pincherli, La vedova. Patria potestà, diritti patrimoniali, seconde nozze, F.lli Bocca, Milano 1901, pp.168 ss; A.C.Jemolo, Il matrimonio, Utet, Torino 1957, III ed., pp.88-90.

83. Cfr. C.Fiore, Infanticidio, in Enciclopedia del diritto, XXI, Giuffré, Milano 1971, pp.391-402. L’articolo 578 del codice penale stabilisce: “La madre che cagiona la morte del proprio neonato, immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni. A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi” (cioè da sette a quattordici anni).

84. Cfr. S.Laws, V.Hey, A.Eagan, Seeing Red. The Politics of Premenstrual Tension, Hutchinson, London 1985; A. Morris, Women, Crime, and Criminal Justice, Basil Blackwell, Oxford 1987, pp. 46-51

85. Si ricordi la massima di Ulpiano citata alla nota 7.

86. Cfr. G.Baggio, Delle persone fisiche incapaci, Utet, Torino 1888, pp.423-436. Cfr. anche G.Calvi, Dal margine al centro. Soggettività femminile, famiglia, stato moderno in Toscana. XVI- XVIII secolo, in Discutendo di storia, soggettività, ricerca, biografia, Rosenberg e Sellier, Torino 1990.

87. Questa preclusione si trova sancita perfino in quella che è stata la prima solenne dichiarazione dei diritti. L’articolo 54 della Magna Charta stabilì: “Nessuno sarà arrestato ed imprigionato per la morte di una persona su accusa di una donna, a meno che la persona morta non sia il marito della donna”. Il principio, come ricordò Gaetano Filangieri, risale al diritto romano: cfr.Scienza della legislazione (1783), in La scienza della legislazione e gli opuscoli scelti, Tip.della Soc.Belgica, Bruxelles 1841, lib.III, cap.II, p.337. Sulla capacità processuale della donna nel diritto canonico, cfr., G.Minnucci, La capacità processuale della donna nel pensiero canonistico classico. Da Graziano a Uguccione da Pisa, Giuffrè, Milano 1989.

88. Cfr. M.T.Guerra Medici, I diritti delle donne nella società altomedioevale, Esi, Napoli 1986, pp. 292-295, che dopo aver ricordato numerosi casi nei quali, nell’alto medioevo, imperatrici, regine e feudatarie avevano presenziato a giudizi in forza delle loro prerogative sovrane, riferisce come la vecchia regola romana tornò ad affermarsi nel basso medioevo.

89. La capacità di testimoniare, ad esempio, è stata nel corso dei secoli più volte messa in dubbio. “Conditio, sexus, aetas, discretio, fama et fortuna fides: in testibus ista requires”: è il distico mnemonico divulgato da Tancredi di Bologna, Ordo iudiciarius, in Pillii, Tancredi, Gratiae libri de iudiciorum ordine, 3, 6, (1216), a cura di F.C.Bergmann, Vandenhoeck und Ruprecht, Gottingen 1842. Fu Cesare Beccaria a dichiarare “frivolo il motivo della debolezza delle donne” quale fattore di non credibilità, Dei delitti e delle pene, (1776), a cura di F.Venturi, Einaudi, Torino 1981, § XIII, p.32. Un ultimo residuo di questo impedimento che, come molti altri, associava le donne ai pazzi, ai vecchi e ai minori, fu eliminato in Italia con una legge del 1877, che consentiva alle donne di essere testimoni in “atti pubblici e privati”, come i contratti, i testamenti o altro. Il dibattito parlamentare che ne precedette l’approvazione, è un saggio illuminante delle idee correnti allora sulla credibilità e affidabilità delle donne.

90. È il titolo dell’articolo di Mariagrazia Campari e Lia Cigarini, in Un filo di felicità, in “Sottosopra”, gennaio 1989, pp.6-7.

91. Cfr. M.Corsale, Pluralismo giuridico, in Enciclopedia del diritto, XXIII, Giuffrè, Milano 1983, pp.1003-1026.

92. E.H.Wolgast, Equality and the Rights of Women, Cornell University Press, Ithaca and London 1980, p.14

93. Cfr. L.Cigarini, Sopra la legge, in “Via Dogana n.5”, pp.3-4. Si veda anche, contro la ricomparsa nel diritto moderno della differenza sessuale come oggetto di tutela e non come fonte di misura autonoma, I.Dominijanni, Donne si nasce, differenti si diventa. L’eguaglianza e il percorso femminista, in “il Bimestrale”, 1, gennaio 1989, pp.74-78. Nello stesso fascicolo cfr. inoltre M.L.Boccia, L’eguaglianza impermeabile. Il corpo femminile ridisegna l’orizzonte dei diritti uguali, pp.81-86.