Dalla trama dei quesiti referendari non emerge alcuna riforma del sistema giustizia né alcuna innovazione volta a tutelare diritti o domande di giustizia dei cittadini
Domenico Gallo
Il 12 giugno saremo chiamati a pronunciarci su 5 quesiti referendari per una giustizia “giusta” chiesti dalle nove Regioni governate dal centro destra. Poiché i quesiti proposti sono piuttosto oscuri per l’opinione pubblica è alto il rischio che il voto sia influenzato da pregiudizi e slogan ingannevoli, a cominciare dal mito che attraverso le modifiche proposte dai referendum si operi una riforma della giustizia, rendendola più “giusta”. In realtà da questa trama di quesiti non emerge alcuna riforma del sistema giustizia né alcuna innovazione volta a tutelare diritti o domande di giustizia dei cittadini.
In primo luogo occorre rilevare che il quesito sul decreto Severino, non ha nulla a che vedere con la “giustizia” ma riguarda la trasparenza e la dignità dell’esercizio delle cariche elettive e di governo, prevedendo l’incandidabilità ed il divieto di ricoprire cariche elettive e di governo per coloro che siano stati condannati con sentenza passata in giudicato per delitti di una certa gravità. Il quesito non punta ad eliminare quegli aspetti critici della Severino che hanno suscitato dubbi di costituzionalità, come la sospensione di diritto degli amministratori locali che abbiano riportato condanna non definitiva, ma travolge l’intero Testo Unico. Dal punto di vista del nostro ordinamento costituzionale il Decreto Severino dà attuazione all’art. 54, secondo comma che prevede che: “i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di esercitarle con disciplina ed onore”. Non si comprende per quale motivo i cittadini italiani dovrebbero sbloccare a corrotti e corruttori la strada del Parlamento, del Governo e delle istituzioni politiche locali. Cancellata la Severino e venuta meno ogni sanzione amministrativa di incandidabilità, rimane solo l’interdizione che derivi da un provvedimento giudiziario per escludere le persone condannate per gravi delitti dalla possibilità di accedere a cariche pubbliche, ma si tratta di un rimedio più apparente che reale. Ai sensi dell’art. 29 del codice penale l’interdizione perpetua dai pubblici uffici è una conseguenza automatica nel caso venga inflitta una condanna per un tempo non inferiore a cinque anni, senonchè, nella generalità dei casi, tutte le persone condannate per fatti di corruzione e altri gravi reati (peculato, corruzione, concussione, riciclaggio, associazione per delinquere, bancarotta fraudolenta, porto e detenzione di armi da guerra) possono incorrere in pene inferiori ai cinque anni, e quindi conservare la possibilità di ricoprire incarichi parlamentari o di governo, una volta decorsi i termini dell’eventuale interdizione temporanea.
Degli altri quattro referendum proposti, due sono irrilevanti, nel senso che la loro eventuale approvazione non avrà alcun effetto pratico, né sull’esercizio della giurisdizione, né sull’ordinamento della magistratura. Si tratta del referendum che riguarda la partecipazione degli avvocati membri dei Consigli giudiziari alla formulazione dei pareri sulle pagelle professionali dei magistrati e quello relativo alla presentazione delle candidature dei magistrati per l’elezione al Consiglio Superiore della magistratura. Gli unici quesiti che hanno vera rilevanza perché in qualche modo incidono sullo statuto della magistratura e sull’esercizio della giurisdizione penale, sono quelli relativi alla separazione delle funzioni e alla limitazione delle misure cautelari.
Il quesito sulla separazione assoluta delle funzioni fra magistratura requirente e magistratura giudicante ha l’effetto di rendere impossibile il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, già adesso soggetto a fortissime limitazioni. In realtà sullo sfondo di questo quesito vi è l’obiettivo, tenacemente perseguito da alcuni settori politici, di pervenire alla separazione delle carriere, passaggio non consentito a Costituzione vigente. L’unico effetto della separazione delle carriere sarebbe quello di allontanare il Pubblico Ministero dalla cultura della giurisdizione e schiacciarlo di più sull’attività di polizia. Si tratta di un antico cavallo di battaglia della destra berlusconiana, dal quale nessun vantaggio trarrebbe la generalità dei cittadini. Dal punto di vista delle garanzie, i cittadini non hanno bisogno di un avvocato della polizia, che un domani potrebbe essere assoggettato al controllo politico, ma di un magistrato imparziale che possa condurre le indagini e guidare l’attività di polizia giudiziaria nell’interesse esclusivo della verità.
Ma il quesito più sconcertante è quello che i promotori qualificano come “limiti agli abusi della custodia cautelare” che, invece, la Corte di Cassazione ha denominato “limitazione delle misure cautelari. Infatti il quesito non interviene sui possibili abusi della custodia cautelare, ma travolge tutte le misure cautelari, sia quelle detentive (come la custodia in carcere o gli arresti domiciliari), sia quelle non detentive, come l’allontanamento del coniuge violento dalla casa familiare o il divieto per lo stalker di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Esclusi i delitti di mafia e quelli commessi con l’uso delle armi, l’abolizione delle misure cautelari, nel caso sussista un pericolo concreto ed attuale di reiterazione dei reati, avrebbe l’effetto di smantellare qualsiasi forma di contrasto alle attività criminali in itinere, esponendo le persone offese a rischi non altrimenti evitabili. Si pensi agli atti persecutori che possono durare all’infinito, se non viene posta nessuna limitazione alla libertà dello stalker di perseguitare la sua vittima. Si pensi a reati particolarmente odiosi come i furti in abitazione, il traffico di droga o la pornografia minorile.
In conclusione con i referendum non si opera alcuna riforma della giustizia, bensì una riforma contro l’amministrazione della giustizia, contro l’eguaglianza e i diritti delle persone. Tutto ciò allo scopo di maggiormente tutelare il ceto politico e i colletti bianchi dagli effetti negativi del controllo di legalità.
Domenico Gallo
I quesiti sottoposti al referendum
Quesito n. 1. Abrogazione della legge Severino.
IL QUESITO «Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?».
Il decreto legislativo che porta la firma dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per i parlamentari, per i rappresentanti di governo, in caso di condanna con sentenza definitiva per reati non colposi a pena superiore a due anni di reclusione. Per gli amministratori regionali, per i sindaci o altri amministratori locali è prevista l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per coloro che hanno riportato condanna definitiva per reati gravi (come la partecipazione ad associazioni mafiose, o altri fatti gravi) o per reati meno gravi quando si tratta di “delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio”. Nei casi di sentenza di condanna non definitiva per i reati che prevedono l’incandidabilità, scatta la sospensione e la decadenza di diritto per gli amministratori locali.
Il decreto Severino presenta dei punti critici con riferimento alla sospensione di diritto degli amministratori locali che abbiano subito una condanna non definitiva per reati non gravi connessi ad eventuali abusi di potere. Tuttavia il quesito referendario non affronta gli eventuali punti critici ma propone l’abrogazione tout court dell’intera normativa sulla incandidabilità e decadenza dei soggetti che ricoprono funzioni elettive.
In realtà si tratta di una disciplina che dà attuazione al principio costituzionale (art. 54) che esige che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
Il quesito viene incontro alla diffusa insofferenza del ceto politico per il controllo di legalità ma danneggia fortemente l’interesse dei cittadini alla correttezza dell’agire pubblico.
Quesito n. 2. Limitazione delle misure cautelari.
IL QUESITO «Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché’ per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni.”?».
I promotori del referendum, avevano intitolato la loro iniziativa: limiti agli abusi della custodia cautelare. La Corte di Cassazione ha correttamente modificato la denominazione in “limitazione delle misure cautelari poichè il quesito non interviene sugli abusi della custodia cautelare, bensì opera una riduzione del campo di applicazione della custodia cautelare e delle altre misure coercitive e interdittive. I promotori lamentano che “ogni anno migliaia di innocenti vengono privati della libertà senza che abbiano commesso alcun reato”. Si tratta di un’osservazione falsa e fuorviante. Secondo il codice di rito, due sono le condizioni imprescindibili perché possa essere emessa una misura cautelare:
- Devono sussistere gravi indizi di colpevolezza
- Deve sussistere un pericolo concreto ed attuale (di fuga, di inquinamento delle prove, di commissione di gravi delitti con uso delle armi, o di delitti di criminalità organizzata, ovvero di delitti della stessa specie).
Questi requisiti processuali che legittimano l’emanazione delle misure cautelari sono presidiati da un duplice controllo, quello del GIP, che può respingere la richiesta del PM se ritiene non gravi gli indizi di colpevolezza, ovvero se ritiene che, pur in presenza di gravi indizi di colpevolezza non esiste una concreta pericolosità. Il provvedimento emesso dal GIP, riguardante misure coercitive, è soggetto ad un controllo immediato da parte del Tribunale del riesame, non a caso identificato come Tribunale della Libertà. A loro volta le decisioni del Riesame sono sempre soggette al ricorso per cassazione. Per quanto, in astratto, è sempre possibile un errore giudiziario, è del tutto impossibile che “ogni anno migliaia di innocenti vengono privati della libertà senza che abbiano commesso alcun reato.”
In caso passasse la modifica chiesta dal referendum, ai giudici verrebbe tolta proprio la possibilità di emettere delle misure cautelari coercitive (nonché misure cautelari interdittive) basate sul pericolo della “reiterazione del reato” (salvo rarissime eccezioni, come per mafia e terrorismo). Un colpo di spugna che, caso vuole, riguarda anche il reato di finanziamento illecito ai partiti, tanto caro ai leader politici.
Occorre precisare che le misure cautelari coercitive comprendono misure detentive (custodia in carcere e arresti domiciliari) e misure non detentive, come l’allontanamento dalla casa familiare (nel caso di violenze in famiglia), o il divieto di avvicinamento nei luoghi frequentati dalla persona offesa (nel caso di stalking), oppure l’obbligo di soggiorno o il divieto di soggiorno. La questione assume notevole rilievo nei casi di delitti seriali, dove la misura cautelare (detentiva o meno) ha una sua specifica utilità per interrompere una carriera criminosa (si pensi allo spaccio di droga) o una progressione criminosa (si pensi agli atti persecutori che, se non interrotti, possono trasmodare in atti di violenza letale come il femminicidio).
Abolire del tutto le misure cautelari coercitive nel caso di pericolo di reiterazione del reato, espone le vittime del reato ed i soggetti più deboli a gravi rischi e pericoli non altrimenti evitabili.
E’ opportuno rilevare che il quesito referendario travolge anche la possibilità di emettere delle misure cautelari interdittive, come il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali, misure dirette ad esercitare opportune forme di contrasto nei reati di carattere patrimoniale o finanziario.
Non si può escludere, ma è improbabile, che i promotori del referendum si propongano di favorire la libertà di azione di spacciatori o di stalker. Il vero problema sono i reati dei colletti bianchi (corruzione, concussione, bancarotta fraudolenta, riciclaggio, inquinamento, etc.).
L’effetto del quesito è di favorire la posizione dei colletti bianchi, rendendo meno incisivo nei loro confronti il controllo di legalità. Non importa se per raggiungere questo risultato bisogna ammorbidire il controllo di legalità anche nei confronti di tutti gli altri.
Questo spiega la strana convergenza fra i radicali, portatori di una cultura ultragarantista (nei confronti degli imputati) e la Lega, portatrice di una cultura opposta (nei confronti dei soggetti marginali). Il risultato finale di questa riforma non sarebbe quello di evitare che migliaia di innocenti vengano privati della libertà, ma di rendere meno incisiva l’azione di contrasto alla criminalità comune ed economico-finanziaria, e di restringere il perimetro del controllo di legalità a fronte di comportamenti devianti e pericolosi per la società.
Quesito n.3. Separazione delle carriere.
IL QUESITO «Volete voi che siano abrogati: l’ “Ordinamento giudiziario” approvato con Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura”; la Legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il Decreto Legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 (Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché’ disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché’ per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160 (Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché’ in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art. 13, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art. 13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,”; art. 13, comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, ne’ con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché’ sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima.”; art. 13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art. 13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche.”; art. 13, comma 6: “6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’articolo 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.”; il Decreto-Legge 29 dicembre 2009 n. 193, convertito con modificazioni nella legge 22 febbraio 2010, n. 24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160.
La Costituzione prevede che: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (articolo 104); il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario (articolo 107); La legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse (art.108).
La magistratura giudicante (giudici) e quella requirente (pubblici ministeri) fanno parte dello stesso ordine, la loro carriera è gestita dallo stesso organo di autogoverno (il Consiglio Superiore della Magistratura). In questo contesto, a differenza che nel passato, il Pubblico Ministero gode delle stesse garanzie di indipendenza del giudice con il quale condivide il medesimo status.
L’esigenza di ricondurre il Pubblico Ministero sotto il controllo del potere politico è una tentazione ricorrente nel mondo politico, ma si scontra con il dettato costituzionale. Per separare la carriera del Pubblico Ministero da quella dei giudici sono state avanzate numerose proposte di riforma costituzionale. Il quesito referendario si propone di realizzare lo stesso obiettivo, aggirando l’ostacolo della Costituzione. Per fare ciò deve intervenire, con il metodo del taglia e cuci, su una grande quantità di norme dell’ordinamento giudiziario.
Attualmente la legge ha stabilito una netta separazione delle funzioni fra magistratura giudicante e magistratura requirente, con la conseguenza che il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante, e viceversa, è soggetto a delle forti limitazioni: è consentito solo cambiando Regione, dopo cinque anni di servizio, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e subordinatamente ad un parere di idoneità alle diverse funzioni del CSM.
Il quesito proposto mira a mettere uno steccato tra le due carriere, chiudendo il Pubblico Ministero in un ghetto dal quale non potrebbe mai uscire nel corso di tutta la sua carriera professionale. Secondo i promotori il quesito è volto a creare “un sano e fisiologico antagonismo tra poteri, vero presidio di efficienza e di equilibrio del sistema democratico”.
Si tratta di una motivazione demenziale che oscura il profilo reale della riforma, il cui unico effetto è quello di allontanare il Pubblico Ministero dalla cultura della giurisdizione e creare le premesse perché, in seguito, con una riforma costituzionale possa di nuovo essere ristabilita qualche forma di controllo politico sull’esercizio dell’azione penale.
Quesito n. 4. Equa Valutazione dei Magistrati.
IL QUESITO «Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a)”; art. 16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?».
A norma dell’articolo 105 della Costituzione: “Spettano al consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.” La valutazione professionale dei magistrati è una competenza che la Costituzione assegna all’organo di autogoverno, che decide anche sulla base dei pareri formulati dal Consiglio Direttivo della Cassazione e dai Consigli giudiziari. Il Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione è un organismo formato sulla falsariga del Consiglio Superiore della magistratura. E’ composto da membri di diritto (il primo Presidente, il Procuratore Generale ed il Presidente del Consiglio nazionale forense), da 8 magistrati eletti dai loro colleghi, nonché da 2 professori universitari e da un avvocato (membri laici). I consigli giudiziari sono organismi territoriali anch’essi formati sulla falsariga del consiglio superiore della magistratura. Essi sono composti da membri di diritto (il presidente della Corte d’appello, il procuratore generale e il presidente dell’ordine degli avvocati), da magistrati eletti dai loro colleghi e da membri laici, avvocati e un professore universitario, nominati con metodi vari e da un componente eletto dai Giudici di Pace. I Consigli formulano pareri su questioni che riguardano l’organizzazione ed il funzionamento degli Uffici giudiziari, esercitano la vigilanza sulla condotta dei magistrati in servizio e formulano le pagelle relative all’avanzamento in carriera dei magistrati. Su queste ultime due competenze hanno voce solo i componenti togati.
Lega e Radicali chiedono che alla valutazione dell’operato dei magistrati partecipino anche avvocati e docenti universitari, i cosiddetti laici. In realtà, già adesso, la legge prevede che gli avvocati debbano esprimere una valutazione, poiché, ai fini della formulazione del parere sulla professionalità: “il consiglio giudiziario acquisisce le motivate e dettagliate valutazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel luogo dove il magistrato esercita le sue funzioni.”
Di tutti i quesiti referendari proposti, questo è quello più inoffensivo, perché – quale che sia il parere del Consiglio giudiziario o del Consiglio Direttivo della Cassazione – l’ultima parola spetta al CSM, che decide.
Tuttavia la disciplina di risulta si presta a delle controindicazioni: un giudice si potrebbe trovare di fronte, in aula, un avvocato che potrebbe poi influenzare, col suo voto, un eventuale avanzamento di carriera. Si creerebbe un cortocircuito di cui non beneficerebbero la terzietà e la serenità del magistrato.
Quesito n. 5 Riforma del CSM
IL QUESITO «Volete voi che sia abrogata la Legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta”?».
Il quesito incide sulle modalità di presentazione dei candidati per l’elezione al Consiglio Superiore della Magistratura. La disciplina attuale prevede che i candidati in ciascun collegio debbano essere proposti da una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. Il quesito elimina la lista, facendo si che ciascun magistrato si possa candidare senza bisogno dell’appoggio di un gruppo di magistrati che sostenga la sua candidatura. Secondo i promotori in questo modo si farebbe venire meno l’influenza delle correnti nella elezione dei membri del CSM. A ben vedere l’obiettivo che il referendum si propone (marginalizzare il peso delle aggregazioni di magistrati nella elezione dei membri del CSM) non può essere condiviso, perché l’elezione dei propri rappresentanti in un organo di autogoverno di rilievo costituzionale necessariamente comporta un confronto fra orientamenti culturali (e politici) differenti, non è una competizione fra qualità personali, che restano sconosciute se il magistrato non partecipa alla vita associativa. Per giunta si tratta di un obiettivo velleitario perché il singolo magistrato, che non sia sostenuto da gruppi organizzati, non ha nessuna possibilità di essere eletto. In realtà l’eventuale approvazione del quesito da parte degli elettori non comporta alcuna riforma del CSM, ma solo un allungamento della scheda elettorale, che conterrà più nomi.
In definitiva si tratta di un quesito inutile, che propone una non riforma: esprime soltanto un segnale politico di diffidenza verso l’associazionismo ed il pluralismo culturale all’interno del corpo dei magistrati.
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