Le migrazioni sono un fenomeno complesso plurale e sistemico. Una sfida al costituzionalismo interno e internazionale ancora da superare. Un testo di Tecla Mazzarese giurista dell’Università di Brescia

Tecla Mazzarese[1]

 

Sommario: 1. Un dibattito duplicemente compromesso; 2. Migrazioni: un fenomeno complesso e plurale strutturalmente sistemico; 3. Sovranità statale, diritto di migrare, diritti dei migranti; 3.1. Alterne vicende dell’asimmetria fra ius emigrandi e ius immigrandi; 3.2. Una sfida al costituzionalismo (inter)nazionale ancora da superare; 4. Cause delle migrazioni (forzate), tutela dei diritti e salvaguardia dei beni fondamentali.

 

«La strada del razzismo, dei ghetti e anche dei numeri chiusi, non solo è immorale e assurda, ma alla fine è impraticabile […] bisogna sapere che […] dovranno cambiare le nostre regole e le nostre forme di aggregazione e quindi noi stessi. […] La stessa questione dei diritti si estende e si complica, perché ci sarà bisogno di mettere in campo nuove parità ma anche nuove differenze […] e allora, se non vogliamo fermarci a qualche concessione, o se mai al soccorso e alla carità, dobbiamo riconoscerli, cioè conoscere la loro storia e la ragione profonda del loro sbarcare qui da noi, del loro “viaggio”» [P. Ingrao, Chi invade chi?,1989].

 

 

  1. Un dibattito duplicemente compromesso

 

Negli ultimi trent’anni il dibattito in tema di migrazioni è stato fortemente compromesso, nella plausibilità dei suoi termini e nell’attendibilità delle sue conclusioni, da due fattori: l’uno di carattere ideologico, l’altro di carattere metodologico.

In particolare, sotto il profilo ideologico, per un verso, è stato viziato là dove si è elusa la dimensione strutturalmente sistemica delle migrazioni e se ne è offerta una lettura in termini di emergenza occasionale e contingente, e, per altro verso, è stato distorto là dove pregiudizi identitari, culturali o religiosi hanno portato a drammatizzare e esasperare profili eccentrici e statisticamente marginali delle migrazioni, assolutizzandoli come loro tratti dominanti e intrinsecamente distintivi (esemplari le ripetute generalizzazioni sui migranti come veicolo di diffusione del fondamentalismo islamico, del terrorismo jihadista o come causa dell’incremento di diverse forme di criminalità).

Sotto il profilo metodologico, invece, anche a prescindere da eventuali condizionamenti ideologici, il dibattito sull’emigrazione spesso è stato falsato da una scarsa attenzione per la complessità del fenomeno (i) sia in relazione alla concatenazione di fattori che lo possono condizionare, (ii) sia in relazione alla varietà di forme e di modi in cui esso può configurarsi in relazione ai paesi d’origine e/o di destinazione dei migranti (così, in particolare, quando si contesta la legittimità della loro migrazione, non si tiene conto che i “migranti economici” non sono solo quelli dei paesi più poveri del sud e dell’est del mondo ma sono anche, e non meno significativamente, quelli di molti paesi europei del sud e del nord, dell’est dell’ovest)[2].

Ora, a partire dalla constatazione del duplice limite, ideologico e metodologico, che spesso compromette il dibattito sulle migrazioni e, soprattutto, il dibattito sull’individuazione e attuazione delle misure per affrontarne cause e possibili effetti, l’affermazione, difesa in queste pagine, è quella della necessità di una ridefinizione organicamente complessiva dei termini della tutela e attuazione dei diritti fondamentali che, nell’indivisibilità del loro insieme e nel loro doppio legame con la salvaguardia dei beni fondamentali, individuano l’unica strategia per porre fine se non a tutte le possibili forme di migrazione almeno a quelle di chi vi è costretto dal venir meno delle condizioni minime della propria sopravvivenza (§ 4).

Da qui, in particolare, l’affermazione che anche gli interventi per porre finalmente rimedio alle troppe reticenze e incertezze del diritto (inter)nazionale – del diritto, cioè, nazionale, regionale e internazionale – nella declinazione delle garanzie per rendere effettivo il diritto di migrare e per tutelare i diritti di chi migra (§ 3), debbano essere pensati e posti in essere, non nella consueta ottica di misure occasionali ed emergenziali, ma, al contrario, nella prospettiva di una ridefinizione, organica e complessiva, attenta a interazioni e condizionamenti reciproci della tutela dei diritti fondamenti nel loro complesso e della loro interazione con la salvaguardia dei beni fondamentali.

Preliminarmente, però, prima di prendere in esame gli argomenti che giustificano queste due affermazioni, alcune notazioni sul carattere non emergenziale ma strutturalmente sistemico dei (nuovi) flussi migratori (§ 2).

 

 

  1. Migrazioni: un fenomeno complesso e plurale strutturalmente sistemico

 

Nonostante l’affermazione che, sempre uguale, in Italia (e in Europa) si continua a ripetere dall’8 agosto 1991 – data dell’approdo nel porto di Bari della nave mercantile Vlora con un carico di circa ventimila migranti in fuga dall’Albania – i flussi migratori che si sono susseguiti negli ultimi trent’anni non sono “un’emergenza”.

Non sono “un’emergenza” ma un fenomeno che – pur nella specificità delle sue diverse connotazioni politiche economiche o secondo i casi geografiche ed ambientali – ha accompagnato, senza soluzione di continuità, gli ultimi trent’anni.

Non solo. Non sono un’emergenza perché, indipendentemente dalle ragioni tutt’altro che fortuite che nei trent’anni successivi alla conclusione della guerra fredda hanno condizionato forme e modi del disordine geopolitico e della sua anarchia economico-finanziaria, i flussi migratori non sono una variabile accidentale ma una costante della storia (e della preistoria) dell’umanità. Una costante che oggi interessa le popolazioni delle più diverse parti del mondo: non solo quelle che soffrono la povertà e/o sono vittima di guerre, persecuzioni politiche, regimi dittatoriali o disastri ambientali ma anche, e in termini quantitativamente non meno significativi, quelle dei paesi ricchi e democratici dell’occidente. Come scrive infatti Stefano Allievi «Le migrazioni […] sono diventate circolari: non ci sono più solo paesi di emigrazione da una parte e paesi d’immigrazione dall’altra. Ormai quasi tutti i paesi sono entrambe le cose: solo in percentuali diverse, e a seconda dei momenti. Per limitarci all’Europa, in Gran Bretagna […] ogni due persone che entrano ne esce una. In Francia gli emigrati sono quasi quanto gli immigrati. In Spagna sono già di più quelli che escono di quelli che entrano. […] E in Italia? Pure»[3].

Da qui, come sintesi di queste prime notazioni forse banali nella loro ovvietà, si può affermare che i flussi migratori – di ieri, di oggi e di sempre – non sono emergenze impreviste e imprevedibili ma, riprendendo il titolo dello splendido film del 2002 di Jacques Perrin sull’universo degli uccelli, testimoniano invece che anche quello degli esseri umani (non diversamente da quello di molte specie di esseri viventi[4]) è un “popolo migratore”.

E ancora, le notazioni precedenti, nella loro ovvietà, consentono soprattutto (i) di contestare e contrastare la lettura, fuorviante nella sua parzialità e unilateralità, che, a partire dallo sbarco in Italia della nave albanese Vlora l’8 agosto del 1991, si è andata affermando dei (nuovi) flussi migratori come eccentriche ed episodiche emergenze (sociali) da gestire con misure improvvisate di politiche disorganiche, e (ii) di giustificare la rivendicazione che i (nuovi) flussi migratori debbano essere affrontati come fenomeni strutturalmente sistemici, complessi e plurali nella molteplicità di variabili politiche, economiche, ambientali, metereologiche, demografiche che li condizionano e li connotano.

In altri termini, la consapevolezza del carattere non tanto fortuito ed emergenziale quanto piuttosto strutturalmente sistemico dei (nuovi) flussi migratori è rilevante perché consente di denunciare l’urgenza di due ordini di interventi di quella alla quale, negli ultimi anni del novecento, Jürgen Habermas faceva riferimento con l’espressione “politica interna del mondo” (Weltinnerpolitik)[5]; di una politica, cioè, le cui decisioni hanno un impatto globale e, quindi, non possono non essere concordate a livello globale.

In particolare, nella prospettiva di un’ormai imprescindibile politica interna del mondo, un primo ordine di interventi riguarda, come si è già anticipato, il ritardo e la colpevole ambiguità del diritto (inter)nazionale dei diritti fondamentali nella definizione delle garanzie necessarie alla tutela dei diritti dei migranti e, ancora prima, dello stesso diritto di migrare; ritardo e ambiguità non smentiti quanto piuttosto riproposti dai termini della tardiva e ancora timida inversione di rotta da parte dell’Onu con l’approvazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile del 2015 e con la Dichiarazione di New York per i rifugiati e migranti del 2016 (§ 3.2).

Non più prorogabili nella loro drammatica urgenza, gli interventi politici e giuridici di questo tipo non sono però di per sé sufficienti a fornire una risposta compiuta al problema dei (nuovi) flussi migratori perché non intaccano né reagiscono in alcun modo sulle ragioni che possono rendere l’emigrazione (non una scelta dettata dal desiderio di sperimentare nuove opportunità per migliorare il proprio tenore di vita ma, al contrario) una necessità di fuga da situazioni in cui mancano le più elementari condizioni di sopravvivenza. Da qui la necessità di un secondo ordine di interventi che si muova nella prospettiva di rendere effettiva l’attuazione e la tutela dei diritti fondamentali non meno che la salvaguardia dei beni fondamentali con l’adozione di misure politiche, economiche e ambientali che comincino finalmente a confrontarsi con le ragioni che, nelle loro forme più drammatiche, rendono le migrazioni necessarie scelte di sopravvivenza. Non foss’altro perché, quando quella di migrare è una necessaria scelta di sopravvivenza, non è possibile impedirla (i) né con retoriche che, paventando scontri di civiltà, demonizzino l’altro, la sua cultura e i suoi valori, (ii) né con la (ri)affermazione di un non meglio precisato sovranismo nazionale, (iii) né, a dispetto del largo favore del quale sembrano godere, con pretese misure securitarie, per quanto drastiche e radicali possano essere la loro declinazione e la loro attuazione (§ 4).

 

 

  1. Sovranità statale, diritto di migrare, diritti dei migranti

 

Fra le molte critiche spesso ferocemente radicali delle quali il costituzionalismo (inter)nazionale del secondo novecento è stato bersaglio, manca, sorprendentemente, una chiara denuncia del fattore che forse più di ogni altro ha condizionato i suoi settantacinque anni di (in)successi. Manca, cioè, un’esplicita problematizzazione della frizione e dell’inevitabile tensione fra due dei suoi principi fondanti: da un lato, la (ri)affermazione del principio della “sovrana eguaglianza” di tutti gli Stati (delle Nazioni Unite)[6], e, dall’altro, la proclamazione del principio, questo sì radicalmente innovativo, della tutela e attuazione dei diritti fondamentali – di tutti i diritti fondamentali – di cui si proclama la titolarità di ogni individuo, di ogni persona. Tensione e punto di frizione che hanno sempre segnato e continuano a condizionare il costituzionalismo (inter)nazionale del secondo novecento, nonostante l’articolo 30 con il quale si chiude la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 sancisca che «Nulla nella […] Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati»[7].

In particolare, eluso dalle critiche dei detrattori del progetto politico e giuridico del costituzionalismo (inter)nazionale – impegnati soprattutto a contestarne l’affermazione dell’universalismo dei diritti fondamentali e a denunciare il loro preteso carattere “occidentale” – il “principio della sovrana eguaglianza degli Stati” è stato sottovalutato anche da chi, sincero fautore del costituzionalismo (inter)nazionale, ha rivendicato come uno dei suoi aspetti più rilevanti, l’affermazione della duplice limitazione, esterna e interna, della sovranità statale in ragione della positivizzazione e internazionalizzazione dei diritti fondamentali[8].

Trascurato, per quanto su opposti versanti, tanto da detrattori che da fautori del costituzionalismo (inter)nazionale e del suo principio della tutela e attuazione dei diritti fondamentali, il “principio della sovrana eguaglianza degli Stati” ha condizionato, sia ritardi e incertezze del diritto (inter)nazionale dei diritti fondamentali sia la prudenza delle Corti sovranazionali e internazionali che, anche ma non solo con il ricorso all’argomento del margine di apprezzamento, tengono in seria considerazione la legislazione e la giurisprudenza dei singoli Stati di volta in volta coinvolti nelle loro decisioni.

Fra le incertezze e incongruenze più manifeste del diritto (inter)nazionale dei diritti fondamentali in ragione del condizionamento del “principio della sovrana eguaglianza degli Stati”, sono particolarmente eclatanti quelli relativi ai termini dell’affermazione del diritto di migrare e dell’individuazione delle garanzie per la tutela dei diritti fondamentali di chi migra (§ 3.2). Incertezze e incongruenze, quelle in tema di migrazioni dell’odierno diritto (inter)nazionale dei diritti fondamentali, che evocano e ripropongono le numerose divergenze e incoerenze sullo ius migrandi e le sue discordanti forme di regolamentazione sempre condizionate, nella varietà delle loro espressioni, dalle esigenze, economiche ancor prima che politiche, degli “Stati sovrani” del passato recente e remoto (§ 3.1).

 

 

3.1. Alterne vicende dell’asimmetria fra ius emigrandi e ius immigrandi

 

Se, per un verso, è definitivamente assodato che le migrazioni sono una costante della storia (e della preistoria) dell’umanità, per altro verso, invece, non è ancora adeguatamente documentato se sia stata una costante della storia dell’umanità anche la preoccupazione di imporne (o quantomeno tentarne) una regolamentazione stabilendo, in una pluralità di differenti declinazioni, a chi, di volta in volta, e a quali condizioni, secondo i casi, sia stato consentito migrare.

Delle forme di regolamentazione delle migrazioni, diffuse e molto risalenti nel tempo, ad oggi, infatti, non si ha ancora una ricostruzione compiuta quanto piuttosto una pluralità di esemplificazioni parziali nella loro specifica definizione spazio-temporale. Ricorrenti, fra queste, le ricerche che a partire dal XVI secolo – secolo dell’affermazione degli Stati moderni e della nascita del diritto internazionale – documentano le prime tematizzazioni politico-filosofiche del diritto di migrare e le prime declinazioni giuridiche, spesso asimmetriche, della sua duplice dimensione dell’emigrazione (possibile) e dell’immigrazione (eventuale).

Nonostante la ricorrente attenzione per l’età moderna, non mancano comunque ricerche che, pur attente a non sottovalutarne i rispettivi tratti distintivi, del “diritto di migrare” segnalano, già nell’alto medioevo, prefigurazioni e anticipazioni in testi normativi o pratiche consuetudinarie relative ad alcuni profili del diritto di viaggiare e/o del diritto alla mobilità (ius peregrinandi nella denominazione latina, right to travel or to free movement in quella inglese). Così, ad esempio, alcune ricerche segnalano la Magna Carta Libertatum che nel 1225, all’articolo 42, sancisce che: «It is to be lawful for every man to depart from [the] kingdom, and to return to it, safely and securely, by land and water, saving our allegiance, except in time of war for some short time». E, andando più a ritroso nel tempo, non manca chi segnala invece la costituzione De quaesitore, emanata nel 539 da Giustiniano per fronteggiare, come scrive Paolo Rondini, il problema della «affluenza e presenza [a Costantinopoli] di un numero eccessivamente elevato di persone che non lavoravano, in quanto oziosi o perché inabili al lavoro o perché non riuscivano a trovare un’occupazione, e che essendo privi di mezzi di sussistenza erano dediti alla mendicità per le strade della città»[9].

Non solo. Ancor prima che nell’alto medioevo, anche nell’età antica sono documentate pratiche consuetudinarie sulla regolamentazione del fenomeno migratorio nelle forme di cui sono stati protagonisti profughi, esuli, fuggiaschi e richiedenti asilo[10] non meno che dissensi sulle ragioni per (non) garantire loro accoglienza.

Riassumendo: la ricognizione storica della pluralità di forme in cui il diritto di migrare e le sue restrizioni hanno trovato espressione (i) nella varietà di tematizzazioni politico-filosofiche, (ii) nell’eterogeneità di declinazioni giuridiche, (iii) nella (in)certezza delle sue prefigurazioni e anticipazioni, ad oggi offre un quadro ancora discontinuo e frammentario di esemplificazioni duplicemente parziali non solo nella delimitazione spazio-temporale ma anche nella (in)volontaria connotazione ideologica della selezione dei dati di cui (non) render conto.

In particolare, della (in)volontaria connotazione ideologica della selezione dei dati dei quali proporre la propria analisi, offrono una significativa esemplificazione alcune apparenti reticenze e/o omissioni nella letteratura che individua nell’età moderna le prime affermazioni (e le relative restrizioni) del diritto di migrare: letteratura, questa, nella quale – accanto e oltre alla registrazione delle sue diverse declinazioni in alcuni paesi europei a partire dalla sua enunciazione con la Pace di Aquisgrana nel 1555 e poi ancora con il Trattato di Osnabrück e la Pace di Westfalia nel 1648 – non sempre si tiene conto (i) per un verso, che, al fine di giustificare la conquista del nuovo mondo, nel 1539, nelle Relectiones de indis di Francisco de Vitoria, si ha la tematizzazione – giuridica e teleologica a un tempo – dello ius migrandi, e (ii) per altro verso, che, sempre nello stesso lasso temporale, all’interno degli imperi coloniali in via d’espansione e consolidamento, si comincia a diffondere la pratica delle migrazioni interne, imposte, di volta in volta, secondo i mutevoli interessi della madrepatria.

Accadimenti – sia quello della rivendicazione del carattere universale del diritto di migrare per poter giustificare la conquista delle terre del Nuovo Mondo sia quello dell’imposizione alle popolazioni delle terre colonizzate di migrazioni interne – che contribuiscono, entrambi, a delineare un quadro della regolamentazione normativa del fenomeno migratorio in età moderna ben più complesso, sfaccettato e incoerente nelle sue pretese giustificazioni di quanto lasci intendere la sintesi suggerita da Giuseppe Sciortino con la formula secondo la quale «[u]scire è un diritto, entrare è una concessione»[11]; formula, questa, che, sempre secondo Sciortino, oltre a registrare il nucleo ultimo delle diverse forme di regolamentazione delle migrazioni in età moderna, individuerebbe, inoltre, «la struttura di base che determina il sistema migratorio mondiale [e] con ogni probabilità continuerà a farlo anche in futuro»[12].

Diversamente da quanto sostiene infatti Sciortino (e con lui gran parte della letteratura sull’”emergenza” emigrazione dell’ultimo trentennio), «Uscire è un diritto, entrare è una concessione» non è la formula che individua la “struttura di base del sistema migratorio mondiale” né in riferimento agli accadimenti dell’età moderna né in riferimento agli accadimenti successivi. Riguardo all’età moderna si è già detto. Riguardo invece agli accadimenti successivi, la formula in esame per un verso ignora che anche quello di “uscire” non sempre è (stato) un diritto (il divieto di emigrare, nell’ex Unione Sovietica, è solo l’esempio più stigmatizzato del Novecento ma non certo l’unico) e, per altro verso, non sembra nemmeno contemplare la possibilità che lo Stato, come ormai da decenni testimonia invece la sua manifesta crisi, possa e/o debba essere soggetto a una netta e radicale ridefinizione dei termini della sua sovranità.

Detto altrimenti, già in età moderna, (i) la rivendicazione del diritto di migrare, per giustificare la conquista delle terre del nuovo mondo, (ii) l’imposizione di migrazioni all’interno degli imperi coloniali alle genti dei propri possedimenti accanto e oltre a (iii) le variazioni della declinazione del diritto d’emigrare negli Stati europei a partire dalla sua enunciazione nel 1555 con la Pace di Aquisgrana e, nel 1648, con il Trattato di Osnabrück e la Pace di Westfalia, restituiscono un quadro della molteplicità di forme dei fenomeni migratori che consente di rimettere in discussione la pretesa ovvietà della tesi, ricorrente in letteratura, secondo la quale «uno degli attributi più importanti della sovranità degli Stati è proprio il diritto di determinare la composizione della propria popolazione, decidendo discrezionalmente chi ammettere e a quali condizioni farlo»[13]. Nella loro congiunzione, infatti, i tre dati in esame testimoniano non tanto di un “diritto” dello stato sovrano (quasi fosse un ineludibile e immodificabile tratto costitutivo della sua stessa grammatica) quanto piuttosto di una prerogativa (storicamente connotata e condizionata come tutto ciò che attiene alle istituzioni politiche e alla loro regolamentazione giuridica) che ha trovato espressione in una triplice pretesa dettata da interessi particolari e da condizioni mutevoli della propria convenienza politica, economica e militare: (i) la pretesa di stabilire non solo chi e a quali condizioni potesse uscire dal proprio territorio e chi e a quali condizioni potesse eventualmente esservi ammesso ma anche, e non meno significativamente, (ii) la pretesa di ignorare la sovranità delle organizzazioni socio-politico-culturali delle genti del Nuovo Mondo e i confini dei loro territori, (iii) la pretesa non solo di violare i confini dei loro territori ma anche di costringerle a migrazioni forzate all’interno del proprio impero[14].

Un quadro, quello che si configura in età moderna, che nulla esclude possa e/o debba essere cambiato in una prospettiva in cui la regolamentazione delle migrazioni, nella pluralità di fattori che ne condizionano forme e modi, sia altra e diversa da quella che per secoli ha visto il predominio degli interessi particolari ed egoistici di singoli Stati e/o di potentati economici, politici e militari. Una prospettiva altra e diversa, cioè, che sancendo la preminenza di bisogni, necessità e esigenze delle genti e delle persone che di volta in volta si rivelano vulnerabili, affronti la regolamentazione dei flussi migratori (nella molteplicità delle loro possibili varianti) non più in funzione delle pretese accampate in nome della sovranità degli Stati quanto piuttosto a partire dal rispetto per la dignità e la libertà delle genti e delle persone vulnerabili.

Una prospettiva, questa, molto più realistica di quanto possa sembrare se solo la si prendesse seriamente in considerazione (§ 4). Una prospettiva che ad oggi, però, non è stata presa ancora troppo sul serio neppure nel conteso del costituzionalismo (inter)nazionale del secondo novecento e del suo impianto valoriale (§ 3.2).

 

 

3.2. Una sfida al costituzionalismo (inter)nazionale ancora da superare

 

Quali che siano (stati) i condizionamenti ideologici nel selezionare i dati in relazione ai quali proporre un’esemplificazione delle diverse regolamentazioni che, nel corso del tempo, sono state date dello ius migrandi (nelle diverse varianti dell’asimmetria fra ius emigrandi e ius immigrandi), è difficile non rilevare che, ancora oggi, nel diritto (inter)nazionale dei diritti fondamentali sviluppatosi nel secondo novecento, quello dei migranti si configura come lo status di “non persone”[15]; uno status, cioè, diverso da quello di «tutti i membri della famiglia umana» dei quali nel Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 si afferma «il riconoscimento della [connaturale] dignità […] e dei loro diritti uguali e inalienabili». In aperto contrasto con quello che avrebbe dovuto e dovrebbe essere lo spirito dell’internazionalizzazione dei diritti fondamentali, nel caso dei migranti la tutela dei loro diritti non individua infatti un limite alla sovranità degli Stati ma, al contrario, ne costituisce una semplice variabile dipendente da quelli che di volta in volta ne costituiscono gli interessi economici o la convenienza politica.

È così, in particolare, già a partire dalla Dichiarazione universale del 1948 nella quale, per un verso, agli articoli 13, 14 e 15 si sancisce sì il diritto di ogni persona ad emigrare e, rispettivamente, quello di chiedere asilo e quello di avere una cittadinanza, mentre, per altro verso, depotenziando la rivendicazione della loro tutela, non si specifica se ed in che termini o a quali condizioni lo Stato nel quale si emigra, si chiede asilo o cittadinanza abbia dei doveri al riguardo.

E ancora, è così anche nel 1951 con la Convenzione di Ginevra che, com’è noto, propone una definizione di rifugiato e sancisce il principio di non respingimento (principio di non-refoulment); Convenzione, questa, il cui ambito di applicazione, prima del Protocollo di New York del 1967, era però soggetto a una duplice limitazione, temporale e geografica, in quanto ad essere considerati rifugiati erano solo coloro che avessero subito una persecuzione per causa di avvenimenti (i) accaduti in Europa, (ii) prima del 1° gennaio 1951.

Ed è così anche successivamente. Nella Dichiarazione Unesco sui principi della tolleranza del 1995 e, poi nella Dichiarazione universale dell’Unesco sulla diversità culturale del 2001, là dove si sancisce il diritto di ogni individuo e di ogni gruppo ad essere diversi sentirsi diversi e ad essere accettati come diversi, nessuna attenzione particolare è prestata infatti alla specificità della tutela dei diritti delle (nuove) minoranze formate da migranti che, a partire da gruppi culturalmente omogenei, si vanno delineando e a volte radicando nei paesi di approdo, condizionando il carattere sempre più multiculturale delle loro società.

Un primo timido dato in controtendenza si ha solo nel 2011 con la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, approvata dal Consiglio d’Europa. Convenzione, questa, che, come mette bene in evidenza Paola Parolari, al punto 3 dell’articolo 4 fa «esplicito divieto di discriminare in base allo status di migrante o di rifugiato» e, in particolare, «si preoccupa di evitare che ad alcune donne sia negata l’effettiva tutela dei loro diritti fondamentali per la presenza nell’ordinamento giuridico degli stati membri di norme direttamente o indirettamente discriminatorie nei confronti dei migranti e/o a causa di eventuali ambiguità nei rapporti politici e giuridici che intercorrono tra lo Stato d’origine dei migranti e lo Stato membro in cui risiedono»[16].

Il timido segnale di una possibile inversione di tendenza, nel 2011, quasi paradossalmente ha però contribuito non ad attenuare ma a rendere più evidente la necessità di un intervento che andasse a colmare la manifesta lacuna del diritto (inter)nazionale dei diritti fondamentali in tema di migrazioni. In particolare, le risposte indicate nel 1990 con la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie si sono rivelate parziali e insoddisfacenti. Parziali, perché il fenomeno migratorio non è circoscritto né circoscrivibile, ieri come oggi, solo ai lavoratori e ai membri delle loro famiglie. Insoddisfacenti, perché circoscrivere il fenomeno migratorio solo ai lavoratori (e ai membri delle loro famiglie) non solo privilegia le esigenze economico-lavorative dei paesi di accoglienza rispetto a quelle dei migranti ma soprattutto perché, quasi beffardamente, non tiene conto del fatto che una delle principali difficoltà dei migranti (di ieri e di oggi) è proprio quella di trovare un lavoro nel paese in cui migrano, o, più correttamente, quello di riuscire a trovare un’occupazione con un regolare contratto di lavoro.

E ancora, nonostante un rinnovato interesse a livello internazionale (più che sollecitato) imposto dalla manifesta inadeguatezza delle misure susseguitesi a livello nazionale e regionale per affrontare i flussi migratori condizionati dal disordine geopolitico successivo alla conclusione della guerra fredda, il timido dato in controtendenza del 2011 non ha trovato sviluppi pienamente convincenti né con L’Agenda per lo sviluppo sostenibile, approvata dall’ONU nel 2015, né con la Dichiarazione di New York per i rifugiati e i migranti approvata dall’Onu nel 2016, seguita, nel 2018, dal Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration e dal Global Compact on Refugees, due documenti, privi entrambi di qualsiasi forza vincolante, la cui messa a punto era già sollecitata, in appendice alla Dichiarazione di New York del 2016, con l’indicazione dei principali punti in cui l’uno e l’altro avrebbero dovuto articolarsi.

Non è pienamente convincente, in particolare, che quella dello “sviluppo sostenibile” sia la prospettiva nella quale muoversi per trovare una soluzione ai 17 nodi problematici denunciati dalla Agenda del 2030: nel corso dei secoli, infatti, la continua rincorsa verso un crescente sviluppo – sempre declinato, a prescindere dalle eventuali connotazioni di turno, nei termini del binomio incremento di produzione dei beni/crescita dei consumi – ha fortemente condizionato l’insorgere e il radicalizzarsi di quegli stessi snodi problematici che L’Agenda del 2030 si propone di risolvere.

Perplessità, questa, che sembra trovare un immediato riscontro nei termini in cui L’Agenda del 2030 parla di migrazioni e diritti dei migranti sia nella dichiarazione di intenti dei suoi primi 59 paragrafi sia, successivamente, in relazione ad alcuni profili dell’ottavo obiettivo (“Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti”) e del decimo obiettivo (“Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le nazioni”).

In particolare, nonostante al paragrafo 23 siano inclusi in una lunga elencazione di persone vulnerabili “da supportare”, in tutti i passaggi successivi dell’Agenda 2030, i migranti non sono mai oggetto d’attenzione perché persone vulnerabili quanto piuttosto, come esplicita il paragrafo 29, per il loro «contributo positivo […] ad una crescita inclusiva e ad uno sviluppo sostenibile» e per l’importanza del loro ruolo «per lo sviluppo dei paesi di origine, di transito e di destinazione». Da qui, in ragione (non tanto della loro vulnerabilità e del rispetto per la loro dignità, quanto piuttosto) della loro (strumentale) utilità per la crescita e lo sviluppo (sostenibile), l’impegno a una cooperazione internazionale «per garantire flussi migratori sicuri, regolari e ordinati». Impegno, questo, ribadito là dove, nella declinazione del decimo obiettivo relativo alla riduzione della diseguaglianza fra le nazioni e all’interno delle nazioni, ignorando che le migrazioni sono condizionate (anche) dal venir meno (non certo programmato o programmabile) delle condizioni minime di sopravvivenza, con tono irenico si sollecita «[a] rendere più disciplinate, sicure, regolari e responsabili la migrazione e la mobilità delle persone, anche con l’attuazione di politiche migratorie pianificate e ben gestite». E non stupisce infine che nella declinazione dell’ottavo obiettivo – relativo al rispetto delle condizioni di lavoro – il riferimento ai migranti si esaurisca nella raccomandazione a non discriminarli nella tutela dei loro diritti; non stupisce, cioè, che ancora una volta, come già nella Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie del 1990, l’attenzione sia rivolta esclusivamente alla tutela dei diritti dei migranti che sono già inseriti nel mercato del lavoro e che si ignorino invece bisogni e necessità di coloro che sono costretti a lasciare il proprio paese indipendentemente da tempi e modi di un’eventuale programmazione di flussi migratori, condizionata dai mutevoli interessi economici dei paesi di volta in volta (non) disposti ad accoglierli.

Non solo. Le perplessità rispetto ai termini nei quali di migrazioni e diritti dei migranti si parla nella Agenda del 2030, non si dissolvono né si attenuano, dopo il 2015, con i documenti specificamente incentrati su rifugiati e migranti: la Dichiarazione di New York per i rifugiati e migranti del 2016, il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration e il Global Compact on Refugees, entrambi del 2018[17]. Non si attenuano, nonostante alcune rilevanti dichiarazioni di principio.

In particolare, alcuni passaggi dell’Introduzione alla Dichiarazione di New York del 2016 sembrano confortare un qualche ottimismo riguardo a una più consapevole presa di coscienza dei termini in cui affrontare il problema. Così, ad esempio, là dove:

 

(i) si riconosce, finalmente, la dimensione sistemica, plurale e complessa dei fenomeni migratori come costante nella storia dell’umanità, e: (a) si prende atto che «Some people move in search of new economic opportunities and horizons. Others move to escape armed conflict, poverty, food insecurity, persecution, terrorism, or human rights violations and abuses. Still others do so in response to the adverse effects of climate change, natural disasters (some of which may be linked to climate change), or other environmental factors» (paragrafo 1); (b) si ammette, in termini che richiamano il concetto già menzionato di politica interna del mondo (§ 2) che «These are global phenomena that call for global approaches and global solutions» (paragrafo 7) e (c) non ultimo, si afferma la necessità «to address the root causes of large movements of refugees and migrants, including through increased efforts aimed at early prevention of crisis situations» (paragrafo 12);

 

(ii) si conferma la condivisione di intenti e principi «of the Charter of the United Nations […] the Universal Declaration of Human Rights and […] the core [of] international human rights treaties», e si rivendica una piena protezione dei diritti umani «of all refugees and migrants, regardless of status» perché «all are rights holders» (paragrafo 5);

 

(iii) si problematizza, anche se non si supera del tutto, la diversità di trattamento giuridico di rifugiati e migranti e si prende atto che «Though their treatment is governed by separate legal frameworks, refugees and migrants have the same universal human rights and fundamental freedoms» (paragrafo 6).

 

Qualsiasi fiduciosa aspettativa ingenerata da queste (e altre) affermazioni di principio ricorrenti anche ma non solo nell’Introduzione della Dichiarazione del 2016 è però sistematicamente inficiata da un attento contrappunto di precisazioni che ne limitano significativamente la portata. Così ad esempio:

 

(i) là dove si ricorda, in uno dei ricorrenti riferimenti all’Agenda del 2030, «the positive contribution made by migrants for inclusive growth and sustainable development» ma al tempo stesso, esplicitando quanto nell’Agenda del 2030 era rimasto sottinteso, si puntualizza che mentre «The benefits and opportunities of safe, orderly and regular migration are substantial and are often underestimated», al contrario, «Forced displacement and irregular migration in large movements […] often present complex challenges» (paragrafo 4);

 

(ii) ma soprattutto, là dove: (a) si puntualizza che l’insieme di impegni (“commitments”) sanciti nella Dichiarazione nei confronti della tutela dei rifugiati e/o dei migranti «[take] into account different national realities, capacities and levels of development and [respect] national polices and priorities» (paragrafo 21), (b) si specifica che quello a una stretta collaborazione «to facilitate and ensure safe, orderly and regular migration» è un impegno che sarà preso «taking into account national legislation» (paragrafo 41), e, sgombrando definitivamente il campo da qualsiasi possibile dubbio residuo (c) dopo aver ribadito che «everyone has the right to leave any country, including his or her own, and to return to his or her country» si sancisce che nondimeno «each State has a sovereign right to determine whom to admit to its territory, subject to that State’s international obligations» (paragrafo 42, corsivo mio).

 

Difficile, dati i termini in cui nel 2015 l’Agenda del 2030, e  nel 2016 la Dichiarazione di New York sono intervenuti in tema di migranti e rifugiati, nascondere una profonda delusione: quello che infatti in queste ultime risoluzioni del diritto internazionale emerge con chiarezza e che in quelle dei decenni precedenti per prudenza e/o remora non era stato ancora esplicitato, è (i) che le migrazioni vanno bene se ed in quanto funzionali alla crescita e allo sviluppo (sostenibile o meno non sembra granché rilevante) dei paesi di accoglienza e/o, subordinatamente, a quella dei paesi di origine e di transito; (ii) che il principio della “sovrana eguaglianza” di tutti gli Stati sancito dal modello della Carta dell’Onu del diritto internazionale non riesce ancora ad affrancarsi dal modello di Westfalia e dal suo principio fondativo della sovranità di ogni Stato; non riesce ancora ad affrancarsene e, con uno slittamento semantico forse non fortuito, dall’affermazione della “sovrana eguaglianza” di tutti gli Stati torna a sancire il “diritto sovrano” di ogni Stato a decidere di chi ammettere entro i propri confini.

 

 

  1. Cause delle migrazioni (forzate), tutela dei diritti e salvaguardia dei beni fondamentali

 

Pur richiamandosi ai suoi principi e ai suoi valori, la Dichiarazione di New York del 2016 rischia quindi di ribaltare il senso e la valenza della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, e all’universalismo dei diritti fondamentali dei quali ogni essere umano è titolare (e dei quali, peraltro, essa stessa rivendica la titolarità anche da parte di migranti e rifugiati), contrappone – sancendone priorità e preminenza – il diritto sovrano di ogni Stato di stabilire chi ammettere nel proprio territorio.

Che dire? Una spia di pulsioni sovraniste che cominciano a imporsi anche nell’ambito del diritto internazionale? O, forse più realisticamente, la riedizione di quanto era già accaduto nel 1948 con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo là dove, in sintonia (non certo con i principi innovativi del modello della Carta dell’Onu, quanto piuttosto) con i fondamenti ancora radicati del modello di Westfalia, (non si censura bensì) si ratifica la presenza, ancora fiorente negli anni quaranta del novecento, del colonialismo[18]?

In altri termini: vizio di fondo che ha sempre compromesso una piena realizzazione dei suoi principi o, invece, ennesima conferma della crisi sempre più dilagante del costituzionalismo (inter)nazionale e del mai realizzato modello di diritto internazionale che si proponeva come altro e diverso da quello consolidatosi a partire dalla Pace di Westfalia? In ogni caso, quale che sia l’interpretazione prescelta, è difficile ignorare o anche solo sottovalutare la tensione fra principio di sovranità e principio di tutela e attuazione dei diritti fondamentali di ogni essere umano – anche di migranti e rifugiati; di tutti i migranti e i rifugiati indipendentemente dal loro status perché, come si afferma nel paragrafo 5 della stessa Dichiarazione di New York del 2016, «all are rights holders» (tutti sono titolari dei diritti).

Ecco allora, come scrive Donatella Di Cesare, che «riflettere sulla migrazione vuol dire ripensare lo Stato»[19]. E ancora, ecco che riflettere sulla migrazione, come con grande lucidità puntualizzava Pietro Ingrao già nel 1989, vuol dire anche rendersi conto che «La stessa questione dei diritti si estende e si complica, perché ci sarà bisogno di mettere in campo nuove parità ma anche nuove differenze […] e […] se non vogliamo fermarci a qualche concessione, o se mai al soccorso e alla carità, dobbiamo riconoscerli, cioè conoscere la loro storia e la ragione profonda del loro sbarcare qui da noi, del loro “viaggio”»[20].

In particolare, è necessario, come sollecita a fare Di Cesare, “ripensare lo Stato” e le forme in cui, di fatto e di diritto, lo Stato esercita (e molto spesso non esercita più) la propria sovranità. Non foss’altro perché, se, per un verso, là dove si tratta di migranti, si continua a rivendicare il “diritto sovrano” di ogni Stato a decidere chi ammettere nel proprio territorio, per altro verso, forse non troppo sorprendentemente, non si rivendica alcun “diritto sovrano” là dove si tratta di arginare e/o riflettere invece sulle conseguenze del dilagare – nel territorio statale, a rischio della tutela dei diritti fondamentali di chi vi vive e lavora – delle diverse forme di economia, finanza e mercato globale[21].

È necessario, quindi, “ripensare lo Stato”. Ma non è meno necessario, come già nel 1989 segnala Ingrao, tener conto e prender atto che «la stessa questione dei diritti si estende e si complica perché ci sarà bisogno di mettere in campo nuove parità e nuove differenze […] se non vogliamo fermarci a qualche concessione, o se mai al soccorso e alla carità». Due, in particolare, i profili in relazione ai quali la “questione dei diritti si estende e si complica”.

Il primo, probabilmente quello più presente a Ingrao quando scrive nel 1989, è quello dei termini in cui garantire una piena tutela del diritto alla cultura e del diritto di «[t]utti gli individui e i gruppi […] ad essere diversi»[22]. Principio, questo, che esplicitamente formulato nell’art. 1.2 della Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali adottata dall’Unesco nel 1978 viene ripreso all’art. 2.4 della Dichiarazione Unesco dei principi sulla tolleranza adottata nel 1995. Anche se, come si è già segnalato (§ 3.2), quasi a dispetto della perentorietà della sua affermazione, né la Dichiarazione Unesco del 1995 né la successiva Dichiarazione universale dell’Unesco sulla diversità culturale del 2001 prestano alcuna attenzione alla tutela di questi diritti nel caso delle (nuove) minoranze formate da migranti che, a partire da gruppi culturalmente omogenei, si vanno radicando nei paesi di approdo.

E ancora, in una prospettiva attenta alle migrazioni e ai fattori che la possono condizionare, il secondo profilo in relazione al quale, la “questione dei diritti si estende e si complica” è quello della salvaguardia dei beni fondamentali, di quei beni, cioè, nella definizione di Luigi Ferrajoli, «la cui accessibilità è garantita a tutti e a ciascuno perché oggetto di altrettanti diritti fondamentali e che perciò, al pari di questi, sono sottratti alla logica del mercato: come l’aria, l’acqua e gli altri beni del patrimonio ecologico dell’umanità e, per altro verso, gli organi del corpo umano, i farmaci cosiddetti “essenziali” o “salva-vita” e simili»[23]. Evidente, per quanto la vasta letteratura sul tema non vi si soffermi molto, la stretta interazione fra salvaguardia dei beni fondamentali – l’individuazione e la sanzione, cioè, di efficaci garanzie della loro tutela – e la prevenzione di molti dei “fattori ambientali” e/o “sociali” che condizionano alcune delle forme sempre più diffuse di migrazione[24].

In una prospettiva attenta alle migrazioni e ai fattori che la possono condizionare, la “questione dei diritti si estende e si complica” e diventa quindi necessario individuare e definire le garanzie per un’efficace tutela della diversità culturale e per un’attenta salvaguardia dei beni fondamentali. Non per questo però viene meno la necessità di continuare a rivendicare – e a difendere dalle critiche e dagli attacchi che sempre più frequentemente tendono a delegittimarlo e ridicolizzarlo – l’attuazione del nesso ultimo e fondativo del costituzionalismo (inter)nazionale del secondo novecento; del nesso, cioè, fra tutela dei diritti, mantenimento della pace e difesa delle istituzioni democratiche. Banale nella sua ovvietà, nonostante l’ostentata indifferenza da parte di chi decide delle politiche in tema di migrazioni, che non si è spinti ad emigrare quando la tutela e l’attuazione dei diritti fondamentali condizionano e sono condizionate a un tempo dal regime democratico di paesi in cui regna la pace. Si emigra da territori dilaniati dalla guerra e/o mortificati da regimi totalitari e/o da paesi in cui, distratti dalla continua rincorsa a uno sviluppo inteso in termini di crescita di beni da produrre e da consumare, non si è più neppure in grado di garantire i diritti sociali dei propri cittadini.

Al carattere sistemico delle migrazioni, nella complessità, pluralità e spesso tragicità delle sue forme, sembra non esserci quindi risposta più realista che quella di prendere sul serio la tutela e la garanzia dei diritti fondamentali – di tutti i diritti fondamentali – nella loro indivisibilità e nel loro doppio legame con la salvaguardia dei beni fondamentali. Non sembra, cioè, esserci altra risposta realista, né forse alternativa plausibile, che quella di riconoscere, con Ferrajoli, che «il popolo dei migranti è oggi il soggetto costituente di un nuovo ordine mondiale e, al tempo stesso, dell’umanità come soggetto giuridico. Per tre ragioni, la prima legata alle spaventose disuguaglianze materiali da cui sono provocate le emigrazioni, la seconda legata alle tante differenze di identità dalle quali il popolo dei migranti è attraversato; la terza legata alle diseguaglianze nei diritti e alle differenze di status che tuttora dividono l’umanità[25].

 

 

Riferimenti bibliografici

 

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Sciortino, Giuseppe [2017], Rebus immigrazione. Bologna il Mulino.

[1] Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Brescia. Una precedente stesura di questo lavoro, con un più articolato apparato di note e di riferimenti bibliografici, è apparso su “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza”, (2020), n.1, pp. 1-23.

[2] La necessità di tener conto della complessità del fenomeno e della pluralità delle sue possibili cause è sottolineata anche da J. Bhabha [2018, p. xiv] là dove scrive: «no viable or just resolution to current refugee and migration pressures can be sustainably reached without addressing the factors that drive people to leave home, whether temporarily or permanently». E ancora, cfr. ad esempio Fr. Castelli [2018].

[3] S. Allievi [2018, pp. 8-9].

[4] Sulle migrazioni come fenomeno significativamente rilevante nella storia e nella preistoria non solo dell’umanità ma anche di molte altre specie dei viventi richiama l’attenzione, ad esempio V. Calzolaio [2010].

[5] Cfr. J. Habermas [1998]. Nella letteratura italiana, il termine e il concetto di “politica interna del mondo” sono stati ripresi, tra gli altri, da L. Ferrajoli [2001] e, più di recente – con riferimento all’urgenza della redazione di una Costituzione della Terra – [2021 a], [2021 b] e [2022].

[6] Nella Carta dell’Onu del 1945, dopo aver affermato nel Preambolo «la fede […] nell’eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole», all’art. 2, primo comma, si sancisce infatti che «L’Organizzazione è fondata sul principio d’eguaglianza di tutti i suoi membri».

[7] Senza per questo volerne contestare o sminuire il grande contributo nel dare il via al progetto politico e giuridico del costituzionalismo (inter)nazionale del secondo novecento, è opportuno non ignorare i tratti problematici che della Dichiarazione universale dei diritti del 1948 denunciano i condizionamenti politici ancor prima e più significativamente che culturali della sua redazione (così, solo per ricordare i casi più eclatanti, si pensi, accanto e oltre a quella relativa ai migranti, alla “distrazione” nei confronti dei diritti dei popoli indigeni, dei disabili e degli omosessuali). Condizionamenti politici la cui denuncia, nel corso degli anni, ha spesso contribuito a una riformulazione più attenta del catalogo dei diritti enunciati nel 1948 e/o delle garanzie opportune alla loro tutela.

[8] Per la chiarezza dei termini in cui è scandita la duplice limitazione della sovranità statale, interna ed esterna, in ragione della positivizzazione dei diritti fondamentali nel diritto statale e internazionale, rinvio a L. Ferrajoli [1997].

[9] P. Rondini [2019, § 3].

[10] In particolare, nella letteratura italiana, ad immigrati, profughi e deportati durante l’Impero Romano è dedicata l’attenta analisi di A. Barbero [2006]; sulla comparazione del diverso trattamento riservato agli “stranieri residenti” ad Atene, Roma e Gerusalemme si sofferma invece D. Di Cesare [2017, pp. 181-198].

[11] G. Sciortino [2017, p. 12].

[12] G. Sciortino [2017, p. 12].

[13] G. Sciortino [2017, p. 12, corsivo mio].

[14] Sarebbe opportuno ricordare inoltre che forme di migrazioni, se non imposte, fortemente condizionate da “accordi” fra Stati si sono avute anche al di fuori degli imperi coloniali. Solo due esempi, entrambi legati alla (recente) storia italiana. Il primo riguarda il Protocollo italo-Belga del 1956 – a volte ricordato in occasione delle commemorazioni dei 136 migranti italiani morti nel disastro della miniera di carbone di Bois du Cazier di Marcinelle; Protocollo che prevedeva l’invio di 50.000 lavoratori italiani in Belgio in cambio di carbone. Il secondo, più risalente, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, riguarda invece un accordo fra l’Italia, all’indomani della proclamazione della sua unità, e la Louisiana, all’indomani dell’abolizione dello schiavismo; accordo al quale fa riferimento E. Deaglio [2015] nel narrare dell’impiccagione di cinque migranti siciliani di Cefalù, il 20 luglio del 1989, a Tallulah. «La Sicilia – scrive Deaglio (pp. 56-57) – aveva aumentato di un milione e mezzo i suoi abitanti dai tempi dell’Unità d’Italia. I siciliani erano troppi, circolavano strane idee, volevano la terra, si ribellavano. I padroni americani si trovavano alle prese con un problema analogo. La guerra aveva affrancato quattro milioni di schiavi che ora non volevano più lavorare sotto la frusta. Bisognava liberarsene, trovare nuovi schiavi. Gli americani chiamarono quel progetto «push and pull», spingi e tira. L’Italia li spingeva via, e niente era più conveniente che ridurli in miseria e fargli sparare addosso dai carabinieri. La Louisiana e il Mississippi li attiravano, come unica speranza loro rimasta. […] Prefetti, militari, latifondisti scelsero i posti in cui operare con cura, paese per paese. E così svuotarono Contessa Entellina, Ustica, Bisacquino, Poggioreale, Corleone, Palazzo Adriano, Chiusa Sclafani, Trabia, Caccamo Gibellina, Vallelunga Pratameno, Roccamena, Sambuca, Salaparuta, Alia. E altri si raccolsero a Palermo, a Termini Imerese, a Trapani, a Salemi. Si calcola che dal 1880 al 1900 partirono per New Orleans in centomila siciliani».

[15] Quest’espressione ormai ricorrente nella letteratura sui migranti è di A. Dal Lago [1999].

[16] P. Parolari [2014, pp. 874-875].

[17] Critico anche il giudizio d J. Bhabha [2018].

[18] Non esplicitamente formulata, una ratifica di fatto della persistenza (ancora negli anni quaranta del novecento) di territori soggetti alla sovranità altrui, si ha al secondo comma dell’art. 2 della Dichiarazione universale del 1948, là dove si sancisce che la titolarità di ogni individuo di tutti i diritti in essa affermati non può essere soggetta a «nessuna distinzione […] stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità» (corsivo mio). Sul punto rinvio a R.F. Betts [1998, trad. it. 2003, pp. 31-43].

[19] D. Di Cesare [2017, p. 11].

[20] P. Ingrao [1989]. La citazione è tratta da G. Di Luzio [2011, p. 26] che riporta ampi stralci dell’articolo di Ingrao pubblicato su “L’Unità”.

[21] Sulla tensione fra la pluralità di forme della lex mercatoria che condizionano e sono condizionate dal dilagare di economia, finanza e mercati globali, per un verso, e, per altro verso, il diritto (inter)nazionale dei diritti fondamentali rinvio a T. Mazzarese [2017, pp. 123-125].

[22] In tema di migranti e diritto ad essere diversi, rinvio a T. Mazzarese [2018].

[23] L. Ferrajoli [2010, p. 68]. Quello dei beni fondamentali e/o dei beni comuni (denominazioni differenti e caratterizzazioni non sempre coincidenti) è un tema oggetto di crescente interesse nella letteratura degli ultimi anni. Di indubbio rilievo, in particolare, oltre quella appena citata, le ricerche di L. Ferrajoli [2007, terzo vol. pp. 582-587], [2019, pp. 247-291], o quelle di S. Rodotà [2011], [2012, pp. 105-138] e di M.R. Marella [2017] che si sviluppano intorno all’interazione fra salvaguardia dei beni comuni e tutela dei diritti fondamentali

[24] Per un approfondimento sul tema, rinvio a T. Mazzarese [2021].

[25] [L. Ferrajoli, [2019, pp. 244-245].