Questa lettera, pubblicata nell’86, prende tutto il suo interesse da quello che è avvenuto dopo, e che sarebbe potuto andare in un altro modo. È una lettera ai comunisti italiani che si accingevano a celebrare il XVII congresso del PCI il 9 aprile 1986, appena cinque anni prima che lo stesso partito comunista, grande protagonista nel bene e nel male dell’Italia del Novecento, cessasse di esistere per l’estinzione decretatane il 3 febbraio del 1991, nel suo congresso di Rimini. Pensata e scritta insieme da Raniero La Valle e Claudio Napoleoni, da due militanti politici perciò non comunisti (erano ambedue al Senato nel gruppo della Sinistra Indipendente) la sorpresa fu che essa venne condivisa e firmata da diverse centinaia di persone che comprendevano molti degli esponenti più importanti e rappresentativi della galassia cattolica del tempo – da padre Balducci, a Italo Mancini, a padre Turoldo, a Giulio Girardi a Eleonora Moro – e anche autorevoli espressioni della cultura laica, tutti politicamente estranei al partito comunista, ma tutti egualmente interessati a un processo di liberazione. Era rappresentata in quelle firme una parte alta della cultura italiana, e la singolarità della cosa stava nel fatto che la lettera pur rivolgendosi a tutte le forze disponibili al rinnovamento, e senza voler entrare nel dibattito del partito, manifestava l’altissimo interesse oggettivo che il partito comunista non venisse meno e che non rinunciasse al suo compito politico. L’intento era anzi quello di indurlo a riformulare, in una prospettiva più ampia e in dialogo con molti, il proprio obiettivo, nella misura in cui quello enunciato fin lì, l’uscita dal capitalismo, dagli stessi comunisti non era considerato più praticabile e, dagli autori della lettera, nemmeno sufficiente. E la singolarità stava in questo che tutti i mittenti di quella lettera che con interesse e rispetto prospettavano al PCI un nuovo finalismo che ne legittimasse il ritrovato ruolo, avrebbero dovuto invece, secondo la vulgata del tempo ancora dominata dal dogma dell’anticomunismo, essere felicissimi della scomparsa del vecchio antagonista.
In realtà quella lettera andava ben oltre la questione della sorte del partito comunista; essa postulava che non dovesse andare perduta l’istanza rivoluzionaria, ma che essa andasse ripensata – come poi si fece nella successiva elaborazione a cominciare da un convegno che si tenne a Cortona l’11 e 12 ottobre di quell’anno – a partire dal fatto che al di là della forma storica assunta nel capitalismo realizzato, c’era un dominio dell’uomo sull’uomo e delle cose sull’uomo che aveva tormentato tutta la storia, un dominio che ultimamente aveva trovato il suo culmine e il suo suggello nel sistema di guerra; sicché il nuovo compito che si poneva a quella e alle future generazioni era di perseguire con tutte le forze, mettendo in gioco le risorse politiche, culturali e spirituali di ciascuno, un’uscita dal sistema di dominio e di guerra: la terza grande rivoluzione da fare, dopo quella borghese e quella proletaria.
Questo il testo della lettera:

Roma, 24 gennaio 1986

A che titolo parliamo – La convocazione del XVII Congresso del Pci, in un momento difficile della vita nazionale, ha aperto una intensa discussione teorica e politica che interessa e coinvolge un gran numero di cittadini di questo Paese, sia tra quanti sono in vario modo legati a tale partito, sia tra quanti gli sono estranei o avversari.
Noi non siamo interessati per principio alle fortune del partito comunista come tale ma, in rapporto al bene comune, siamo interessati alle sue scelte, alle sue proposte ed ai suoi atti, terreno su cui, come per ogni altro partito, si sono stabiliti e si stabiliscono dialoghi, collaborazioni, alleanze o adesioni. Il titolo per il quale siamo interessati al congresso del Pci, indipendentemente da motivazioni più specifiche, è pertanto un interesse di carattere generale, analogo a quello che il 2 febbraio 1957 portava l’allora patriarca di Venezia, Roncalli a salutare il congresso del PSI, convocato in quella città, quale “avvenimento di grande rilievo per l’indirizzo del Paese”, “certamente ispirato allo sforzo di riuscire ad un sistema di mutua comprensione di ciò che più vale nel senso di migliorare condizioni di vita e di prosperità sociale”, appoggiandosi “su buone volontà sincere, su intenzioni rette e generose”. Tenendo conto del nostro ruolo, in diversi modi esercitato nella vita pubblica del Paese, intendiamo tuttavia esprimere questo interesse non solo con un augurio o con l’attesa di prendere atto delle conclusioni del congresso, ma proponendo un contributo alla sua stessa discussione; anche se questo non vuol dire ritenere il Pci l’unico destinatario chiamato in causa da queste riflessioni, il cui contenuto ci sembra tale da dover riguardare anche altre forze, politiche e non politiche, disponibili a un cammino di liberazione.
A queste considerazioni riguardanti le scelte del Pci, siamo indotti particolarmente da una circostanza, autonomamente affermata dallo stesso partito comunista, che per la radicalità del discorso che apre non solo riguarda la stessa prospettiva storica dei comunisti italiani, ma investe l’intera cultura politica del Paese. Essa si può far risalire alle parole con cui, nel dicembre 1981, l’allora segretario del Pci, Enrico Berlinguer, giudicò “esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”, con ciò spostando dal passato al futuro il punto di riferimento della ragion d’essere e della stessa identità del partito; un passato pur rivendicato nella sua innegabile importanza storica, un futuro da progettare e da costruire. In tale futuro, per elaborazione e scelta degli stessi comunisti italiani, c’è la prospettiva di una società, che essi chiamano socialista, ma che non è simile a nessuna delle società finora conosciute come tali, sia che esse siano fallite per il loro stesso radicalismo, sia che esse siano tuttora efficienti e non prive di vitalità, ma fondate su un sistema politico a partito unico e su un modello economico centralizzato: “strada – dicono gli attuali dirigenti comunisti (cfr. ad es. Gerardo Chiaromonte, in Critica marxista, n. 2-3, 1985, p.87) – per noi impraticabile e che non vogliamo praticare”, “tipi di società che non ci sembrano obiettivi da perseguire”. Al contrario, secondo l’affermazione fatta da Berlinguer a Mosca nel 1977, deve trattarsi di una società “originale” fondata sulla “democrazia come valore storicamente universale”.
Questo passaggio, acceleratosi e compiutosi negli «anni di Berlinguer», mette il partito comunista italiano e indirettamente la società in cui esso è cosi largamente radicato e inserito, in una situazione del tutto nuova, e perciò non priva di difficoltà. Essa comporta una ulteriore determinazione di scelte di carattere generale: dichiarata esaurita una spinta propulsiva e venuti meno, come obiettivi, dei modelli tradizionali, non si può restare in mezzo al fiume, occorre imprimere una nuova spinta e indicare i nuovi obiettivi; è infatti sui moventi e sui fini che si fonda il consenso a una forza politica, è in forza di essi che la gente si muove, partecipa, lotta, alza i vessilli; è su questo che si decide lo sviluppo o il declino, anche rapido, di un partito. A noi pare che oggi sia appunto in gioco, come forse mai in passato, un’alternativa di incremento o di declino di significato del Pci per la società italiana; e mentre l’attuale incertezza può logorare consensi e speranze, siamo sconcertati del fatto che nell’attuale dibattito non solo vengano avanzate dall’esterno al partito comunista istanze di totale rovesciamento del suo cammino storico e della sua stessa identità, ma anche dall’interno del partito si alzino voci, non prive di seguito, tese a licenziare ogni discorso di valori e di fini e a privilegiare una concezione cosiddetta moderna e magari «laica» della politica, ridotta a pura opportunità ed efficienza, e in sostanza a puro potere. AI contrario, a noi sembra che spinta motivante e pregnanza di obiettivi siano oggi più che mai per il Pci la cosa veramente importante; esse sono prioritarie rispetto alle stesse alleanze, alla definizione dei rapporti con socialisti o cattolici, alla ricerca di strade per l’accesso al governo; questo infatti è significante solo se capace di produrre un salto di qualità, come un governo di programma può rispondere alle attese, anche più immediate, solo se si innesta in una prospettiva di lungo periodo e in una visione di ampio respiro.

La questione dell’«uscita dal capitalismo»- In tale quadro si discute, nel partito comunista, ma non solo in esso, se abbia ancora attualità o attuabilità, in questa parte dell’Occidente, e dunque concretezza di obiettivo politico, il postulato ideologico dell’«uscita dal capitalismo».
Non c’è dubbio che questa prospettiva ideale ha animato per decenni la lotta di grandi masse diseredate o desiderose di giustizia; che essa ha definito sinteticamente ed efficacemente l’identità storica di partiti comunisti e di movimenti di liberazione; che, anche quando non è riuscita a produrre nuovi modelli societari e ad attivare processi storici di costruzione del socialismo, si è tradotta in una critica efficace del capitalismo realizzato e ne ha prodotto in diversi modi correzioni, trasformazioni e riforme, come nella grande esperienza post-bellica europea, oggi in crisi, del cosiddetto «Stato sociale»; e non c’è dubbio infine che essa è ancora oggi capace di animare fronti di lotta e speranze di trasformazione sociale in tutto il mondo.
È anche vero però che questa prospettiva globale, assunta nella sua inevitabile sommarietà ed assolutezza, si presenta più sotto le forme di un assioma ideologico che di un programma politico, e non aderendo alle situazioni reali rischia di passare sopra ai problemi di trasformazione e ai bisogni più urgenti di tutta una fase storica dello sviluppo sociale. Lo stesso Fidel Castro, nella recente conferenza latino-americana a L’Avana, ha detto che nemmeno il socialismo, da solo, potrebbe venir a capo dell’abissale accumulazione dei problemi sociali in quell’emisfero, mentre l’America Latina ha bisogno prioritario di liberarsi dalla dipendenza dal debito estero e di avviare una integrazione economica continentale.
Vi sono d’altronde delle forme di oppressione ed espropriazione politica che non sono adeguatamente spiegate dalla sola natura capitalistica dei poteri dominanti e dove perciò l’istanza di liberazione non è pienamente interpretata dalla parola d’ordine di una uscita dal capitalismo: ai palestinesi non basterebbe un Israele socialista per avere una patria cosi come i problemi della supremazia bianca in Sudafrica, del dominio inglese sull’Irlanda del Nord, dell’integralismo musulmano in Iran, della disintegrazione del Libano, della spartizione di Cipro, benché connessi e complicati con conflitti di classe, non hanno in tali conflitti la sola loro spiegazione ed origine. La stessa devastante realtà della fame nel mondo, che tiene in condizioni di precarietà e di subalternità anche politica una grande quantità di Paesi formalmente indipendenti, se è storicamente legata al capitalismo, è dubbio che sia ancor oggi una conseguenza necessaria della forma capitalistica dell’economia dei Paesi dominanti, la quale anzi trarrebbe giovamento e profitto da un più generale sviluppo; più plausibilmente essa è perpetuata e aggravata da scelte culturali e politiche di etno-centrismo e di dominio a cui i meccanismi economici si conformano e si identificano.
Forme di dominio, di egemonia, di sopraffazione militare sono del resto presenti anche nel campo dei Paesi a regime socialista; mentre il problema culminante della nostra epoca, quello della minaccia della guerra atomica, è alimentato dalle politiche di potenza e dalla corsa agli armamenti in cui sono impegnati, benché in misure e con motivazioni diverse, i Paesi dell’uno e dell’altro blocco.
La prospettiva ideale di una fuoruscita dal capitalismo è pertanto percepita ambiguamente sul piano politico, nel presente momento storico, anche da parte di molti di coloro che ne dovrebbero essere artefici: lavoratori, operai, ceti medi intellettuali, popoli in via di liberazione e di sviluppo. Essi non vi vedono espresso tutto ciò di cui hanno bisogno; non trovandosi all’anno zero della rivoluzione, quando tutta l’attenzione è proiettata in avanti e non si ha il peso di esperienze già fatte a cui confrontarsi, guardano al passato, alle strade già percorse, alle esperienze realizzate, e non vorrebbero ripeterle; temono di perdere, insieme alle strutture ingiuste che vogliono scrollarsi di dosso, anche valori positivi che storicamente si sono intrecciati, in un mondo che non è manicheo, al corso storico delle società capitalistiche, primo fra tutti quello della democrazia; e quando vivono in società sviluppate, riscontrano nella stessa vita economica di cui sono protagonisti, conquiste da non perdere, aspetti positivi di relativo benessere, di intraprendenza, di partecipazione, di pluralismo sindacale, di inventività produttiva, di mercato, che sono da preservare e che le stesse società socialiste mostrano oggi di voler recuperare.
Nelle particolari condizioni dell’Occidente, poi, una forza politica, un partito comunista che venisse percepito come interamente definito dall’obiettivo di un’uscita, anche pacifica, dal capitalismo, non solo incontrerebbe sempre di più come di fatto ha incontrato ed incontra, lo sbarramento dei grandi poteri interni e internazionali protesi con tutti i mezzi, ivi compresi quelli occulti e fino all’impiego dei servizi segreti, a mantenerne l’esclusione dal potere, ma sarebbe altresì gravato da un sospetto, interiorizzato in larghe zone di opinione anche democratica, di non piena affidabilità come partito di governo in una società pur bisognosa di trasformazione. Del resto è questa una delle possibili chiavi di lettura di recenti risultati elettorali. Quello che sembra entrato nel senso comune è che non è possibile, per una inesorabile reattività del sistema, un’uscita dal capitalismo in un solo Paese, quando questo Paese sta in Occidente e, pur nelle sue peculiarità, vi ha sviluppato un alto grado di immedesimazione culturale, militare e politica.
Non tocca a noi, qui, dare al partito comunista consigli su materie che riguardano la sua stessa identità di partito; non tocca a noi dire se e in che modo l’antica parola d’ordine dell’uscita dal capitalismo, nome del resto che copre molte cose, debba essere mantenuta come connotato essenziale o primario del partito. Ci pare però che dal momento che la questione è stata posta, essa non possa essere considerata ininfluente o marginale nel presente dibattito, non possa essere oggetto di semplici allusioni o lasciata nel vago, non possa essere considerata meramente nominalistica o, peggio, ridicolizzata.
E proprio perché la questione esiste, sentiamo tutta la portata, non restauratrice ed integralistica, ma laica e innovativa, della domanda: «ha ancora senso essere comunisti?». Noi riteniamo che questa domanda non riguardi solo i comunisti, ma tutta la cultura e la politica italiana, e anzi dell’Occidente.

Attualità dell’istanza rivoluzionaria o trasformatrice – Non riteniamo però che questa domanda avrebbe una risposta adeguata, se essa consistesse in una rinuncia alla trasformazione della società, o in un rinvio di questa ad un tempo lontano, per dare mano, intanto, a migliorarla. Non c’è dubbio, infatti,che questa società, di cui l’Italia rappresenta una porzione, va trasformata, va cambiata; essa non solo mostra, nel suo stato presente, un altissimo tasso di problemi irrisolti, che investono, affliggono o distruggono la vita di un gran numero di persone e di popoli, ma, nella sua dinamica, corre verso situazioni di altissimo rischio per la vita stessa della specie, un rischio sempre più eccedente ogni ragionevole limite. Senza essere profeti di sventura, non si può fare a meno di rilevare che un’oscura percezione di catastrofe – nucleare, ecologica, alimentare, di rapporti umani – convive col bisogno di felicità e con l’intraprendenza quotidiana delle presenti generazioni, e soprattutto dei giovani.
Di questo sono tutti, più o meno lucidamente, consapevoli; nulla dunque, nemmeno il comune buonsenso, suggerisce o impone un abbandono dell’istanza rivoluzionaria. Nemmeno sembra doversi abbandonare, poiché corrisponde alla coscienza comune, quella riserva critica nei confronti del capitalismo che consiste nel non intenderlo e non accettarlo come un sistema ideologico onnicomprensivo e totalizzante; come osserva anche Giorgio Ruffolo nel suo ultimo libro, “La qualità sociale. Le vie dello sviluppo”, «il capitalismo fa parte integrante del nostro sistema sociopolitico, tuttavia non è il sistema. I valori capitalistici, fortemente propulsivi per lo sviluppo materiale del sistema, sono, allo stato puro, socialmente disgreganti». Dunque, almeno in questo senso è incontrovertibile l’istanza di uscirne, di rompere la rigidità del capitalismo come sistema, proprio come non si può pensare di contrapporgli un altro «sistema» egualmente compatto e conchiuso, quando è sempre più evidente che i complessi problemi della nostra epoca non permettono l’illusione che ci sia un «sistema» ideologicamente preordinato ad interpretarli e risolverli.
Dunque un’«uscita» rimane necessaria. Ma uscire da dove? E per quale esodo? Quale è il punto critico, quale il nodo cruciale da affrontare per una trasformazione reale della società? E se la formula dell’uscita, simpliciter, dal capitalismo, non è più storicamente adeguata ad esprimere l’istanza di liberazione che la ispirava, quale altra prospettiva può rappresentare non un ripiegamento rispetto ad essa, ma un avanzamento e uno sviluppo, che ne ritrovi e ne adempia la stessa interna verità?
La risposta a queste domande implica una vasta gamma di questioni, che investono l’ordine interno e l’ordine internazionale e il loro reciproco condizionarsi; questioni che non sono solo politiche, ma anche teoriche, nel momento in cui l’Occidente è chiamato a ripensare tutta la sua storia culturale, economica e politica, mentre vengono al pettine i nodi delle sue antiche sicurezze: il dominio della natura, il soggetto, il potere, lo Stato, la produzione, il denaro, il mercato, la pianificazione. Questioni su cui è urgente sviluppare la riflessione e su cui le forze impegnate alla trasformazione, e che si richiamano alle tradizioni del movimento operaio, devono riprendere un grande sforzo teorico e critico, forzando i vincoli della propria stessa cultura, per poter concepire e promuovere il cambiamento non solo dove ci sono situazioni arretrate ed esigenze elementari da soddisfare, ma anche nei punti alti del sistema, dove il superamento sarebbe massimamente significativo.
Non potendo essere di questo documento un approccio globale di questo tipo, ci sembra però di dover richiamare fortemente un’esigenza cruciale, e di poter proporre un punto di vista che pur nella sua specificità rispetto al complesso dei problemi indicati, ne offre una chiave di lettura che ci sembra particolarmente illuminante e tutti li attraversa e li condiziona.

L’uscita dal sistema di dominio e di guerra – Se l’istanza dell’uscita dal capitalismo sembra inadeguata ad esprimere l’essenza della trasformazione oggi necessaria, noi crediamo che la necessità generale ed urgente, che esprime il bisogno e la speranza di milioni di uomini e donne in tutto il mondo, e che è capace ed esige di assumere oggi piena dignità di obiettivo politico, è l’uscita dal sistema di guerra: e perciò potenzialmente da tutte le forme di dominio dell’uomo sull’uomo, di cui il sistema di guerra rappresenta la compagine e l’ordinamento.
Quando diciamo «uscita dal sistema di guerra», non intendiamo solo che bisogna evitare la guerra, e soprattutto l’apice di tutte le guerre, che sarebbe la guerra nucleare. Questo anche il sistema di guerra potrebbe riuscire a farlo, e, almeno quanto alla guerra nucleare, di fatto in questi decenni ci è riuscito. Anzi nel suo ultimo stadio, che è quello della militarizzazione dello spazio, il sistema di guerra promette il massimo della guerra per evitare la guerra.
Quando diciamo sistema di guerra intendiamo un sistema,quale è appunto quello vigente, che assume la guerra, anche solo programmata e non combattuta, come fondamento e culmine dell’ordine politico, cioè del rapporto pubblico tra i popoli e tra gli uomini; un sistema dove la guerra non è un evento ma un’istituzione, non è una crisi ma una funzione, non è una rottura ma un cardine del sistema; una guerra sempre deprecata ed esorcizzata, ma mai abbandonata come possibilità reale.
Un sistema di guerra è un sistema dove le armi non sono solo strumenti militari di difesa, accessori e subordinati alla volontà generale, ma sono di fatto la massima struttura di potere
della società, ciò che ne esprime e determina la vera natura; un sistema dove le armi non hanno solo una funzione militare, ma ancor più hanno una funzione politica; esse di fatto determinano la natura del regime politico, ne producono la costituzione materiale, segnano limiti rigidi alle possibilità di alternative e di mutamenti interni al sistema politico, fissano i confini di compatibilità dei suoi rapporti esterni e della sua politica internazionale, si impongono come fonte normativa primaria e architrave del sistema; in una parola, oltre una certa soglia, esse non sono più l’armamento di una società, ne sono l’ordinamento; tale è diventata in questi decenni l’arma nucleare, come supremo principio regolatore dei rapporti mondiali, tale si è rivelata la reale portata politica degli euromissili in Europa, come delle armi sovietiche nei Paesi dell’Est; tale è il significato politico e costituente dei missili di Comiso; anzi proprio Comiso è l’esempio più chiaro: la «servitù militare» connessa a queste armi, implica una nuova dislocazione del potere, per la quale il nostro popolo, il nostro Stato, i suoi organi costituzionali sono espropriati del potere di pace e di guerra; e l’episodio di Sigonella, dove su una questione al confronto irrisoria, come la cattura di quattro terroristi, con tanta difficoltà si sono potute esercitare le prerogative della sovranità nazionale, non è una smentita ma anzi una conferma di questo fatto. Cosi va riconosciuto per tempo, al di là delle controversie secondarie, il significato politico e costituente del progettato sistema delle armi stellari, prefigurazione e strumento di un unico dominio mondiale. È chiaro infatti che chi possiede lo spazio assedia e domina la Terra.
Questo sistema di guerra, presidiato al vertice dalle armi nucleari, è quello che garantisce nella sua immodificabilità l’attuale disordine, congela le relazioni tra i blocchi, preserva nell’attuale sperequazione e violenta ingiustizia i rapporti tra Nord e Sud del mondo, intercetta e impone sempre più alti prezzi di sangue ai movimenti di liberazione, quali che siano le ideologie che li ispirano, rende impossibile la soluzione di ogni anche minore crisi internazionale, irrigidisce e difende una situazione in cui ogni bambino di Paesi economicamente dipendenti viene al mondo nudo e con un debito di mille dollari da pagare.

Genesi e sviluppo del sistema di guerra – Il sistema di guerra non è nato oggi, benché oggi, con l’arma nucleare, e domani con quelle stellari, consegua la sua forma assoluta.
Esso, nella sua forma moderna, è nato in Occidente, ha presieduto alla conquista delle Americhe, ha informato la nascita e lo sviluppo dello Stato moderno, ed ha avuto i suoi teorici ed i suoi assertori, in un arco che va da Machiavelli a Hobbes, a von Clausewitz, a Carl Schmitt, a Reagan. Ha fondato colonie ed imperi, ha prodotto guerre ed inutili stragi, ed ha conosciuto la massima degenerazione del nazismo e del fascismo. Esso precede il capitalismo, accompagna tutto lo sviluppo della società industriale ed è al suo interno che si è aperta la contraddizione tra socialismo e capitalismo. Il socialismo stesso non ne è uscito; esso ha attaccato il nesso tra capitalismo e sistema di guerra, tra capitalismo e imperialismo, interpretando la violenza e la guerra come un prodotto oggettivo delle condizioni economiche e produttive, ma non ha colto la portata degli altri fattori oggettivi e soggettivi che generano i conflitti, né ha riconosciuto la specifica capacità del sistema di guerra di assorbire nel proprio ambito tutto il rapporto internazionale e di informare perciò tutto l’ordine politico; di conseguenza il socialismo non ha combattuto il sistema di guerra come tale, concependo la pace come una conseguenza della instaurazione del socialismo; di qui la legittimazione della guerra e della violenza rivoluzionarie, di qui la priorità data alle esigenze, anche militari, della costruzione e della difesa dello Stato socialista, identificate con la difesa della pace e divenute criterio supremo di giudizio in ordine alla pace e alla guerra. In tal modo lo Stato socialista è rimasto prigioniero del sistema che voleva combattere, e ne ha dovuto imitare modelli economici e indirizzi produttivi, soprattutto in campo industriale, per far fronte alle esigenze del rapporto di guerra.
Pertanto, anche nell’analisi marxista, non sono state pienamente colte la genesi e la natura del sistema di guerra, che senza dubbio è strettamente connesso alle condizioni economiche, ma non ne è interamente spiegato. Anche nelle condizioni dell’economia capitalistica vi sono guerre che sono controindicate dal punto di vista economico, dominazioni che rappresentano un onere piuttosto che un guadagno, spese per armamenti che sottopongono a dure tensioni le capacità di assorbimento del sistema. Anche oggi, le colossali spese per gli armamenti, e la condizione di arretratezza in cui è tenuto il Sud del mondo, non sembrano corrispondere a una necessità economica del sistema di mercato, e costringono le economie capitalistiche a derogare alle leggi della convenienza e a difficili adattamenti per farvi fronte.
Tuttavia il sistema di guerra non è privo di motivazioni e non è, in questo senso, irragionevole. Esso è l’organizzazione del dominio, un dominio che non è e non vuole essere solo economico, ma è propriamente politico; oggi esso si esercita non meno che mediante i mezzi economici, attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, l’uso delle tecnologie, la pressione sulle culture, la strumentalizzazione di ideologie e di religioni.

Le radici del dominio – Le origini del dominio sono così lontane e profonde nella storia dell’uomo, che è difficile vedere come la politica, da sola, potrebbe averne ragione. È possibile però vedere come esso si è manifestato e strutturato nei diversi sistemi politici, e come esso sotto varie forme ricorra anche nei regimi più liberali, per porre al giusto livello di profondità l’istanza di un superamento.
Il rapporto di dominio è considerato cosi connaturale alla convivenza umana, che secondo alcuni teorici della politica, la guerra, come strumento decisivo del dominio, è nel cuore stesso dell’ordine politico, ed anzi sta alla sua origine. Ciò dipenderebbe dall’inevitabile distinzione degli uomini in amici e nemici; sarebbe l’inimicizia, cioè la capacità di un gruppo umano di sentirsi solidale in funzione della contrapposizione agli altri, percepiti come nemici, a costituire il criterio necessario e sufficiente del politico. La politica non potrebbe perciò fare a meno del nemico, mentre l’esistenza del nemico, inteso come l’alieno, l’estraneo, quello che «abita al di là del fiume», comporta l’irrinunciabilità della guerra, come estrema soluzione del conflitto. Dunque non solo la guerra come continuazione della politica, ma la politica come interna a un sistema di guerra. Tale è stato l’apporto che all’interpretazione del «politico» è stato recato da Carl Schmitt; e benché naturalmente anche questa elaborazione possa essere discussa, e in ogni caso non debba essere trasformata da lettura della realtà in norma di comportamento, essa appare particolarmente pertinente e impressionante sul piano conoscitivo, perché anche una sommaria analisi della situazione esistente, soprattutto nei rapporti internazionali, mostra che le cose stanno proprio così.

Uscire dalla guerra come sistema – Dal sistema di guerra si può uscire. Prodotto dalla storia, esso può essere superato nella storia. Non si tratta di una petizione di principio, ma di una convinzione che si può esprimere in termini di laicità, la quale non è negazione di ideologie e di fedi, ma negazione di ogni assoluto determinismo, che sottrarrebbe la storia alla responsabile decisione umana.
Uscire dal sistema di guerra non significa la realizzazione utopica di un mondo dove non ci siano più violenze e non ci siano più guerre. Anche lo Stato, nato per realizzare la pace al suo interno sostituendo alla violenza privata e di gruppo la forza della legge, non ha potuto estirpare la violenza dentro di sé e risolvere o rendere non violenti tutti i conflitti. Uscire dal sistema di guerra significa però uscire dalla guerra come sistema, come struttura portante e istanza suprema dell’ordine politico interno e internazionale. Questo è possibile, ed è un obiettivo politico pari alle speranze e ai doveri di questa generazione. Altre volte è stato tentato, ma invano, come nel grande sussulto di coscienze che accompagnò la fine dell’ultima guerra mondiale, da cui nacque il sogno di una democrazia universale dei popoli, che doveva trovare nell’Organizzazione delle Nazioni Unite un germe rimasto senza frutto. Ma ciò che non è stato possibile ieri, può diventare possibile, quanto più è indispensabile, oggi. Come è possibile un ordine economico che per funzionare non abbia bisogno della guerra, e che non si metta al servizio della guerra, cosi è possibile un ordine politico che non abbia nella guerra il suo criterio e la sua condizione di esistere.
Questa possibilità viene negata da quanti vedono nella contrapposizione amico-nemico la condizione naturale dell’uomo, sì che il politico moderno, in tutte le sue forme, altro non sarebbe che l’assunzione consapevole della inimicizia come criterio dell’ordine sociale, il quale pertanto in nessun caso potrebbe fare a meno dell’ipotesi della guerra come possibilità reale. Ma questa possibilità reale, ieri solo dolorosa e cruenta è oggi la possibilità reale di una intera distruzione del mondo, e dello stesso ordine politico di cui la guerra sarebbe il principio costitutivo; perciò questa concezione della politica è entrata, nell’era atomica, in una insanabile contraddizione con se stessa. Deve essere possibile quindi un’altra fondazione della politica, come è possibile una concezione meno pessimistica dell’uomo, non «naturalmente» nemico all’altro uomo; quella concezione positiva dell’uomo che ha permesso alla grande rivoluzione borghese di proclamare la fraternité, alla grande rivoluzione socialista di proclamare l’unità di tutti gli uomini, all’ultimo Sartre di riprendere il tema della fraternité, ma con la qualificazione, suggerita dalle dure lezioni della storia, di una «fraternità senza terrore»; e ha permesso a un papa universalmente amato, Giovanni XXIII, di affermare, con la Pacem in terris, la definitiva irrazionalità della guerra e di dichiarare, nella Ad Petri cathedram (29 giugno 1959), che «Iddio ha creato gli uomini non nemici, ma fratelli… Le diverse nazioni altro non sono che comunità di uomini, cioè di fratelli, che devono tendere, in unione fraterna, non solo al fine proprio di ciascuna, ma altresì al bene comune dell’intero consorzio umano».

Guerra e dominio – Uscire dal sistema di guerra vuol dire disarmare il dominio, vuol dire dare un colpo decisivo al sistema di dominio di cui il sistema di guerra è la massima espressione. Se a produrre il sistema di guerra non è un fato, non è un destino, non è un’irresistibile spinta della natura, ma quel fattore storico, pur radicato e duraturo, che è il dominio e il potere in funzione del dominio, pace e liberazione sono inseparabili. Un’azione politica volta a combattere il dominio deve perciò far leva contestualmente sia sulle componenti internazionali che su quelle interne su cui il dominio si struttura e si fonda.
La democrazia è stata il grande tentativo storico di sottrarre la politica alle leggi del dominio. La democrazia non è infatti solo il governo della maggioranza, né solo un insieme di regole del gioco, ma è il governo della maggioranza nell’interesse generale; la democrazia non divide la società in amici e nemici, per essa le minoranze non sono nemici da schiacciare; quando l’interesse particolare, fosse pure quello della maggioranza, prevale sugli interessi comuni, sul bene comune, anche la democrazia, come già diceva Aristotile, contraddice a una retta costituzione della società.
Ma la democrazia, sposandosi con lo Stato sovrano moderno, che fa del proprio interesse il proprio fine assoluto, nella comunità internazionale non persegue l’interesse generale, bensì l’interesse particolare dello Stato a cui aderisce, il quale non si riconosce altro limite che quello opposto dalla resistenza altrui. Così la democrazia, nata per assicurare la pace e la libertà all’interno, riproduce il sistema di guerra e di dominio all’esterno, finendo poi per esserne essa stessa contagiata nei rapporti interni. Ciò spiega perché in società democratiche l’imperialismo abbia basi di massa, come avviene in America; ciò spiega l’apparente contraddizione tra la natura democratica dell’ordinamento interno degli Stati Uniti e la vigorosa ripresa della loro proiezione di potenza e di dominio in tutto il mondo, a cominciare dall’America Latina, quale si è avuta, col consenso dell’elettorato, con la presidenza Reagan e con l’esplicita teorizzazione, da parte della sua amministrazione, degli «interessi vitali» degli Stati Uniti come norma suprema di azione e unico criterio di giudizio per l’impiego delle forze militari americane oltremare, e quindi per le eventuali guerre da fare.
Uscire dal sistema di guerra significa dunque rompere i rapporti di dominio sul piano internazionale, anche se avallati da meccanismi democratici, rinunziare a interpretare la sovranità in termini di difesa esclusiva e assoluta dei propri interessi, e assumere l’interesse comune, l’interesse di tutti gli uomini e popoli, come criterio della politica internazionale, per la costruzione di un ordinamento di pace e di giustizia tra le nazioni.
È la via indicata dalla Costituzione italiana. Ma l’Italia non può uscire da sola dal sistema di guerra. Questa è la ragione per cui l’Italia non si può isolare dall’Occidente, in cui è inserita, questa è la ragione per cui l’Italia non ha più in suo potere, se anche lo volesse, di uscire da sola dalla Nato, questa è la ragione per cui ogni vera alternativa appare oggi preclusa. Il «caso italiano» non ha soluzione in Italia; la «democrazia bloccata» si è bloccata in Italia sugli spalti del sistema di guerra. La tragedia Moro e la successiva vicenda degli euromissili ne sono l’ultima prova.

La pace come progetto politico – Perciò i comunisti non possono, a nostro parere, ripensare al loro ruolo in Italia senza affrontare questo problema, senza una proposta che non sia solo per l’Italia, ma sia per l’Europa e per l’Occidente. Fuori di questo quadro la «questione comunista» non ha soluzione; posti a livello minore i problemi non hanno risposta; anche le risposte più intelligenti e novatrici, come molte avanzate nel presente dibattito, non misurandosi con i limiti opposti dal quadro più generale, rischiano di rivelarsi illusorie. Il «nuovo internazionalismo», nel rapporto tra le grandi forze ideali, a cui fortemente richiamava anche Enrico Berlinguer nel rapporto al XV congresso del Pci, non è una concessione al filantropismo o al terzomondismo, ma una necessità vitale per riprendere in mano il problema nazionale italiano, riaprire la dinamica politica interna, e giocare tutte le risorse di cultura, di tradizioni e di iniziativa dell’Italia per concorrere a costruire un nuovo ordine mondiale.
Questa istanza emerge oggi con forza dalla coscienza profonda del Paese; e dove è ancora latente non è difficile portarla alla luce. Il movimento della pace, che talvolta ha saputo assumere dimensioni di massa, ne è stato in questi anni tra i maggiori interpreti, ne ha espresso i valori, i sentimenti, le speranze, le utopie. Oggi è tuttavia necessario che la questione della pace assurga a un più alto livello di coscienza critica e di progettazione, è necessario che assuma tutta la forza e il realismo di un grande obiettivo politico.
Tale obiettivo può essere qualificato come un obiettivo politico generale: esso riguarda infatti l’interesse della società intera, ne implica una profonda trasformazione mediante il consenso, e non può che essere realizzato dalla società intera, nella molteplicità delle sue articolazioni, movimenti, partiti. Ma un obiettivo politico generale ha anche bisogno di una forza politica organizzata che lo assuma in modo specifico come proprio, lo ponga al centro della propria azione politica, ne faccia misura del proprio rapporto con la società, lo prenda come luogo di confronto e di incontro con le altre forze politiche, lo adotti come sintesi espressiva e convincente della propria fisionomia e del proprio programma.
Noi pensiamo che tale possa essere il Pci, in coerenza con lo sviluppo della sua storia culturale e politica dalla svolta di Salerno e dalla Costituente fino ad oggi. Non è una novità per il Pci indicare come prioritario il problema del «destino dell’uomo» nell’era atomica, non è una novità per il Pci mettere «la pace al primo posto», non è una novità la sua condivisione degli ideali del movimento della pace. Ma il porre ora la questione della pace a livello più avanzato, darle concretezza e mezzi propri di un progetto politico, intenderla storicamente come uscita dal sistema di guerra e di dominio e perciò come progetto di trasformazione sociale, comporta per il Pci farsi esso stesso «movimento» di pace, istituzione politica finalizzata alla pace.
Si potrebbe obiettare che ciò non basterebbe a definire la figura del partito, a manifestarne la diversità. Altri partiti possono legittimamente affermare di essere anch’essi per la pace, di essere anch’essi per l’uscita dal sistema di dominio e di guerra. Tanto meglio; questo significherebbe riconoscere l’unità del fine e condurre la lotta politica sui mezzi, significherebbe riconoscere il terreno comune su cui verificare coerenze e incoerenze, convergenze e divergenze, su cui impostare collaborazioni e alleanze, significherebbe delegittimare residue preclusioni ideologiche, ostracismi, e ogni conventio ad excludendum.
Né d’altronde sussistono rischi di uniformità, di assimilazione per nessuno. Se la pace è politica, essa comporta il rischio della scelta tra diverse possibilità politiche, comporta la possibilità di differenziazioni anche profonde nelle analisi e nei giudizi storici, nei programmi d’azione, nel modo stesso di far politica. Questo è il luogo della positiva diversità, dell’irrinunciabile pluralismo.
Né si tratta, privilegiando la costruzione della pace senza dominio, di incrinare o di rinviare la prospettiva della trasformazione sociale, ma di perseguire questa prospettiva nell’unico contesto in cui essa abbia senso; si tratta di perseguire la pace e la liberazione come fini in sé, e non come effetti secondari della realizzazione di un determinato tipo di società, a cui interinalmente perciò potrebbero essere sacrificati la pace, il principio del non intervento, il rispetto per le peculiarità dei singoli popoli. Si tratta di cercare per prima la pace, sapendo che con la pace il resto verrà, sapendo che insieme alla pace, se si avrà la capacità di concepire e guidare il cambiamento, una società più alta potrà essere costruita.

Rompere il nesso tra capitalismo, socialismo e sistema di guerra – Porre sul piano politico il problema dell’uscita dal sistema di dominio e di guerra significa oggi, storicamente, attaccare e rompere il nesso che lega sia il capitalismo che il socialismo al sistema di guerra. È evidente che sia l’uno che l’altro non potrebbero operare questa rottura senza trasformarsi, una trasformazione più o meno profonda a seconda del grado di maggiore o minore omogeneità e interdipendenza che essi oggi hanno col sistema di guerra; è evidente che fuori di questo sistema né l’uno né l’altro potrebbe essere lo stesso.
Appartiene alla critica ideologica del capitalismo la convinzione che tale sistema sia intrinsecamente legato alla guerra, che la dottrina del capitalismo, espressione della sua struttura produttiva, non possa fare a meno dell’opzione della guerra, e che pertanto sia indissolubile il nesso tra capitalismo, imperialismo e sistema di guerra. Ed effettivamente è nella connessione tra capitalismo, neo-imperialismo e scenari di guerra che si persegue oggi un dominio di estensione mondiale. Ma anche in questo caso vale il principio che altro sono le dottrine, altro sono i movimenti della storia; è dunque del tutto legittimo e fondato, anche in Occidente, provocare il capitalismo a separarsi dal sistema di guerra. Toccherà ad esso semmai l’onere di affermare l’impossibilità di rompere questo legame, di uscire da rapporti di dominio, ricadrà su di esso la responsabilità di mostrare, opponendosi all’uscita dal sistema di guerra, che fuori del sistema di guerra il capitalismo non può stare. Ma ciò appartiene alla prova del futuro. La stessa provocazione può e deve essere rivolta ai Paesi del socialismo realizzato; è chiaro infatti che in quei Paesi il sistema di guerra sostituisce la necessità del consenso; l’uscita dal sistema di guerra è pertanto la condizione per una rottura della rigidità interna dei regimi socialisti, per una ripresa della loro evoluzione, per una maggiore affermazione e tutela al loro interno dei diritti umani. La resistenza che i sistemi vigenti opponessero all’uscita dal sistema di guerra, sarebbe la prova di quanto il progetto politico della pace assuma in effetti una portata rivoluzionaria.

Un nuovo ordinamento internazionale – Uscire dal sistema di guerra vuol dire costruire un nuovo rapporto internazionale non solo tra Est e Ovest e tra Sud e Nord, ma lungo tutte le coordinate, anche minori, della comunità internazionale. Significa delegittimare, come sciovinistico e corporativo, il perseguimento di interessi nazionali incompatibili con l’interesse politico generale, che non può essere che l’interesse comune dell’intera comunità mondiale. Uscire dal sistema di guerra comporta perciò la ripresa della costruzione di una vera comunità politica di Stati, popoli e nazioni, con un ordinamento giuridico che la esprima e la tuteli. Qui il passaggio dalle armi alle leggi, come già è avvenuto nella vita interna delle società statuali, ed embrionalmente nella stessa vita internazionale, è il principio e il fulcro dell’inversione di tendenza per uscire dal sistema di guerra verso un sistema di giustizia e di pace. Il presupposto ne è il rifiuto di considerare l’attuale situazione mondiale come caratterizzata dall’inevitabile e irrevocabile divisione degli Stati in amici e nemici, e nel rifiuto di accettare che la prova dell’amicizia e della fedeltà nei confronti degli uni, debba consistere nella professione d’inimicizia e nella minaccia armata rivolta verso gli altri. É in questo quadro che va posto il problema della sicurezza. Il problema della sicurezza, come aveva compreso l’ex cancelliere Brandt, è oggi indivisibile; paradossalmente, come del resto è stato riconosciuto in molteplici trattati, la sicurezza propria passa attraverso la sicurezza e il senso di sicurezza del proprio avversario; l’interesse
nazionale alla sicurezza, lungi dal consistere nel minare o nel ridurre la sicurezza altrui, sta nel rispettarla e garantirla. È contro lo statuto della sicurezza, utilizzare la legittima esigenza di sicurezza come strumento o paravento per realizzare fini di superiorità e di dominio. È proprio questo che fa l’attuale sistema di guerra. La sicurezza non ha nulla a che fare con la possibilità di vincere una eventuale guerra atomica, con la capacità di prevalere contro un ingiusto aggressore. Anche ove questa possibilità esistesse, la sicurezza ne sarebbe ugualmente negata e travolta. Questo mostrano di comprendere alfine gli stessi Stati Uniti quando perseguono il mito della difesa assoluta con le armi stellari. Ma si tratta appunto di un mito, che può servire a molte altre cose, tranne che a dare ciò che promette. Di fatto le armi costruite e installate per la sicurezza sono del tutto inadeguate a garantirla nell’ipotesi della guerra, e creano occasioni prossime e condizioni imminenti di guerra finché la guerra non c’è.
Un sistema di sicurezza non può prendere principio pertanto che dal riconoscimento che amici e nemici sono accomunati dallo stesso interesse e dallo stesso destino, e che perciò la loro inimicizia, che per essere reale dovrebbe comportare in ultima istanza la possibilità della guerra e della distruzione dell’uno o dell’altro, non è vera inimicizia, è un’inimicizia storicamente impossibile; tale è l’inimicizia tra Stati Uniti e Unione Sovietica; tanto varrebbe prenderne atto e costruire un sistema fondato non sulla falsa ipotesi della loro inimicizia e sulla simulazione della guerra tra loro, ma su una ipotesi, vera perché se assunta destinata ad autorealizzarsi, della loro comunanza e amicizia.
La stessa ipotesi andrebbe assunta esplicitamente, come l’unica realistica, anche per i rapporti tra i sistemi, e i rispettivi Stati, in cui le due grandi Potenze sono inserite, e potrebbe
gradualmente investire altre condizioni storiche di inimicizia – in Medio Oriente, nel Sud-Est asiatico, in America Latina – che pur avendo specifiche ragioni, sono alimentate e incancrenite dall’inimicizia tra le potenze maggiori.
La caduta del rapporto mondiale di guerra farebbe cadere i maggiori e più resistenti supporti materiali alle strutture di dominio, e permetterebbe una ripresa della dinamica storica, dell’invenzione di nuove forme sociali e dello sviluppo economico e civile in tutto il mondo.

La costruzione dell’Europa – Nella prospettiva generale dell’uscita dal sistema di guerra, andrebbe ripreso e ripensato il discorso della costruzione politica dell’Europa, finora condotto in modo non sufficientemente critico, con scarsa partecipazione di base e, almeno in Italia, nelle forme di un distratto e improbabile unanimismo. Al riparo di un generale accordo sulla necessità di più adeguate istituzioni per affrettare il cammino verso l’unione politica europea, vi è chi intende questo processo come una nuova fase della contrapposizione tra Est ed Ovest e ancora una volta identificando sistema politico e sistema di guerra, vuole farne l’occasione di un riarmo comune europeo, anche nucleare, integrato nelle strutture militari della Nato (come risulta anche dal rapporto della Commissione Dooge), istituzionalizzando e consacrando cosi, in nome della unità europea, la definitiva divisione dell’Europa, e riproducendo su scala europea, in nome del superamento dello Stato nazionale, la forma più tradizionale di Stato nazionale fondato sull’esercito, sulla contrapposizione a un nemico esterno e sulla unità di comando in funzione della guerra.
Noi riteniamo che il processo per l’unità politica europea vada depurato di questi contenuti regressivi, e vada ordinato non a un vecchio da mistificare, ma a un nuovo da costruire.
Immaginare l’Europa politica come un super-Stato a sette o nove o anche dodici membri, dotato di un esercito, di un nemico, di una bandiera e di un arsenale nucleare,significherebbe frammentare ulteriormente l’Europa in tre o più parti, tra Europa «atlantica», Europa «neutrale» ed Europa dell’Est, lasciando fuori da ciò che si pretende chiamare «Europa» altissime tradizioni culturali, politiche, religiose, civili, che del retaggio europeo sono parte integrante e irrinunciabile, da Vienna a Praga, da Zurigo a Mosca e forse, se la Danimarca e l’Inghilterra e la Grecia non ci staranno, da Copenaghen a Londra ad Atene.
Nel momento in cui si rilancia la costruzione politica europea, occorre invece che essa sia istituzionalmente e laicamente aperta all’altra Europa, e che mantenga viva l’istanza di una ricomposizione dell’unità europea, spezzata prima dai fascismi, poi dalle divisioni seguite alla seconda guerra mondiale.
Perciò, invece di privilegiare contenuti e forme dell’unità che si risolverebbero nella irrevocabile divisione tra due Europe l’una contro l’altra armate, occorrerebbe concepire e organizzare l’unità oggi possibile come fulcro e anticipazione di un’unità più vasta, e sviluppare soprattutto settori – come quello della ricerca scientifica non militare, della innovazione tecnologica, della cooperazione economica – su cui già sono in atto o sembrano possibili convergenze e collaborazioni tra un più ampio numero di Paesi europei, ben oltre i limiti geografici e politici di una piccola Europa, e tra questi e gli Stati Uniti.

Uscita dal sistema di guerra e cambiamento sociale – L’uscita dal sistema di guerra, come abbiamo detto, non ha solo una dimensione internazionalistica. Per la coerenza stessa del sistema essa non può non riguardare l’assetto interno delle società nazionali, e da queste partire.
Proporsi, a partire dalle condizioni proprie della società italiana, di uscire dal sistema di guerra significa rinnovare profondamente la nostra società, riducendovi sempre più l’incidenza dei rapporti di inimicizia e di dominio, e facendo in modo che essi non trovino le condizioni favorevoli a stabilirsi e a riprodursi.
Una società senza rapporti di dominio, e che combatta per superarli, una società non condannata all’inimicizia interna ed esterna, non vuol dire una società senza conflitti. Sempre ci saranno conflitti e competizioni ideali, politiche, sociali, economiche, perfino religiose, conflitti tra i ruoli nella produzione e nella vita pubblica, tra le classi, tra i sessi, tra le età e cosi via.
La democrazia e il diritto sono il teatro dello svolgimento, della normazione e della composizione dinamica dei conflitti; essi infatti accompagnano inevitabilmente il pluralismo, che non solo non è un inconveniente della vita sociale, ma ne rappresenta lo stesso valore ed il senso. Tuttavia il conflitto non deve essere assunto come fondamento e criterio della vita politica e sociale, cosi che la democrazia stessa non possa essere che definita e voluta come una «democrazia conflittuale», in modo che per coerenza con tale definizione a un massimo di conflitto corrisponderebbe un massimo di democrazia. Non è questa la democrazia compiuta. Il conflitto non è il fine della democrazia, ma ne rappresenta la prova.
Questo significa che i conflitti devono essere continuamente relativizzati, storicizzati, mediati, indirizzati verso la soluzione, che sarà sempre altrettanto relativa e storica. Un conflitto che venga assolutizzato e conservato come tale, che cristallizzi le parti nel rapporto di inimicizia, e che perciò generi alimenti e perpetui la figura del nemico, un conflitto che intransigentemente attraversi senza attenuarsi e ricomporsi una lunga fase della vita sociale, oltre ogni suo mutamento e abbracci più generazioni, cosi da diventare irriducibile e permanente, è indice di una grave patologia della vita sociale, in cui appunto la crisi diventa un sistema..
Uscire dal sistema di guerra vuole dire pertanto non accettare alcuna divisione in Italia come irreparabile: né che le divisioni siano fondate su intransigentismi ideologici, come quella tra opposti. integralismi, né che siano motivate da sperequazioni economiche, come quella tra Nord e Sud, tra occupati e disoccupati, tra garantiti e non garantiti, né che siano causate da motivi culturali e esistenziali e da antiche abitudini di dominio, come quella tra uomo e donna.
Uscire dal sistema di guerra significa non accettare un’economia che per funzionare abbia bisogno di un alto numero di disoccupati, un mercato che pretenda di assorbire tutti i rapporti e le funzioni della vita sociale, stabilendone duramente le condizioni di esistenza ed il prezzo. Questa è la forma specifica di dominio propria dell’economia capitalistica che, estremizzando il dominio delle cose sull’uomo, riduce tutto a denaro, e quindi a mercato, anche se ci sono realtà che si sottraggono a tale egemonia, che non si fanno assorbire in una produzione fine a se stessa, particolarmente in una situazione complessa e articolata come quella italiana. Proprio per questo è realistico intraprendere un’azione riformatrice volta ad allargare l’area non giudicata dal denaro e non dominata dal mercato. La poesia, la cultura, l’arte, la gratuità, l’invenzione, i sentimenti, la comunicazione, il gioco, la qualità e l’abbondanza della vita devono poter fiorire anche se sono «fuori mercato» e il tempo deve tornare a valere per ciascuno, anche se non è sempre e solo denaro.
Questo comporta stabilire un rapporto non conflittuale con la natura, un atteggiamento non di sfida ma maieutico verso di essa, arrestandone la distruzione e dilapidazione. Riconoscere limiti alla violabilità della natura, rinunziare a un approccio di «aggressività faustiana» verso di essa, non significa ristabilire tabù e riserve sacrali, ma vivere la compagnia con la natura all’interno di un orizzonte di razionalità e di discrezione (che forse era il senso più profondo in cui Berlinguer intendeva l’«austerità»), tenendo conto dei ritmi lenti della sua evoluzione, della esauribilità delle sue risorse, della rottura che nella ciclicità dei suoi processi introduce una produzione lineare che da un lato preleva risorse e dall’altra rilascia scorie, rifiuti e inquinamento.
Ciò vuol dire assumere il controllo della tecnologia, sottoporla al discernimento della sapienza umana e politica, commisurarla alla qualità della società in cui si vuol vivere e che si vuol costruire. Non ogni tecnologia, per il solo fatto che sia possibile, rappresenta un progresso: non tale è la tecnologia delle nuove armi, non tale è la tecnologia che permette la manipolazione e la sperimentazione sull’embrione e sull’uomo, non tale è la tecnologia che privilegiando un trattamento accentrato dell’informazione, comporti un incondizionato controllo della popolazione.
Si tratta insomma di riprendere vigorosamente lo sviluppo, abbandonando però una concezione puramente quantitativa e deforme del medesimo. È puramente quantitativo quello sviluppato mirato solo alla aumentata produzione di merci e servizi. e indifferente alla loro destinazione e al loro godimento; è deforme quello sviluppo che punta alla crescita precipitosa di particolari settori dell’economia e della società, di particolari aree del mondo, di singoli Paesi o gruppi di Paesi, senza preoccuparsi di coordinare il passo degli uni a quello degli altri, nel falso pregiudizio ideologico che l’aumentata ricchezza del ricco automaticamente significhi la salvezza del povero Particolarmente sul piano internazionale l’aumento del divario e le sue conseguenze devastanti dimostrano che non è cosi.
Occorre invece rendere lo sviluppo delle aree ricche del mondo compatibile, omogeneo e solidale con lo sviluppo delle aree povere, ciò che si verifica se la via dello sviluppo prescelta implica una mobilitazione di risorse, di energie, e di modelli culturali disponibili e attingibili cosi nei Paesi più avanzati che in quelli meno avanzati.
Un dibattito molto. ampio è aperto nella sinistra su queste tematiche (e si potrebbero ricordare qui le interessanti suggestioni contenute nel già citato libro di Ruffolo); un dibattito che non è tuttavia qui il caso di riprendere, se non per sottolineare che mentre la ricerca delle soluzioni più adeguate è direttamente influenzata dalle condizioni della società in cui si opera, non. può peraltro svilupparsi che in stretta interdipendenza con le condizioni della realtà internazionale.
Uscire dal sistema di dominio e di guerra a partire dalle condizioni proprie della società nazionale, vuol dire altresì liberare uomini e donne dalla eccessiva dipendenza dal potere politico e dalle istituzioni sociali; significa rinnovare e riformare l’apparato burocratico e amministrativo, non solo in vista della sua efficienza e redditività, ma anche in vista del rovesciamento della sua prospettiva, che deve essere riformulata a partire dalle necessità e dalle esigenze dei comuni cittadini, a cominciare dall’esigenza di essere riconosciuti nella propria dignità e di essere trattati con la considerazione e il rispetto dovuti ad ogni membro di un corpo sovrano; e vuol dire anche aiutare il potere giudiziario a ricostruire ed approfondire una cultura della giurisdizione, attenta alle garanzie fondamentali, permeata dei valori della Costituzione ma aliena da ogni spirito di crociata; riconoscendo l’inesistenza di zone franche e di limiti invalicabili al controllo giudiziario ma insieme depurando questo da ogni improprio sostanzialismo incurante del rigoroso rispetto delle forme, e da ogni tentazione strumentalizzatrice che può annidarsi nelle pieghe di procedure e ordinamenti non trasparenti.
In questa linea occorre anche riconoscere che i grandi problemi della criminalità organizzata, la mafia, la camorra, la «ndrangheta», gli stessi rigurgiti del terrorismo, non sono solo problemi di polizia o di repressione giudiziaria, e non si possono risolvere senza un’avanzata risposta politica e sociale, anche per non addossare alla magistratura supplenze e compiti non suoi, coinvolgendola poi ingiustamente nel conflitto politico; e occorre riprendere la riflessione su tutta la questione dei delitti e delle pene nel nostro Paese, e sull’universo carcerario.
Uscire dal sistema di guerra vuol dire ancora non qualificare l’Italia come uno dei maggiori fabbricanti ed esportatori di armi per le guerre di tutti contro tutti, e perciò riconvertire l’industria bellica con il necessario coinvolgimento e l’assunzione di responsabilità dei sindacati; vuol dire riqualificare il servizio di leva e integrare più profondamente le Forze Armate nella società italiana. Se la guerra non è la «professione» dell’esercito, ma solo l’evento che esso funzionalmente, e non da solo, deve essere preparato a fronteggiare, il rischio di un «esercito professionale» dovrebbe cessare di essere un impedimento ad una legislazione che riconosca pienamente il diritto soggettivo all’obiezione di coscienza, e in prospettiva a una effettiva opzionalità tra servizio civile e servizio militare; e la scuola dovrebbe preparare a questa scelta.
Uscire dal sistema di dominio e di guerra significa mantenere il rifiuto politico e di principio dei missili di Comiso, e promuoverne senz’altro la rimozione, eventualmente anche per via referendaria. Per il significato che essi hanno assunto, e che si è voluto loro dare, di consacrazione ed emblema del sistema di guerra, essi sono incompatibili con una scelta nazionale rivolta ad uscire da tale sistema. Questa è la ragione della centralità di Comiso. Quei missili del resto non erano nemmeno necessari: come oggi riconoscono i poteri stessi che li hanno voluti, ed è consegnato negli atti parlamentari (Senato, 27 marzo 1985) essi ebbero soprattutto la funzione politica di catturare il consenso dell’opinione pubblica europea alla drammatizzazione del conflitto in Europa, dopo la rinuncia americana alla distensione, il pentimento sul Salt Il e l’installazione sovietica degli SS 20; ma erano armi non affidabili e mal collaudate, tanto che perfino i sostenitori della loro installazione hanno alla fine riconosciuto, dopo l’incidente di Heilbronn, che erano una «patacca» politica e strategica (La Repubblica del 26 aprile 1985). Altre armi, dislocate nel Mediterraneo o nei mari del Nord, benché meno simboliche, sono ben più congrue rispetto al fine di perseguire un riequilibrio o una superiorità militare, se di questo si tratta. Se dunque i missili di Comiso sono stati il simbolo e lo strumento dell’imbarbarirsi e saldarsi del sistema di guerra, al di là delle stesse convenienze e necessità militari, questo simbolo va rovesciato, come annunzio e inizio di una strada nuova.

Le alleanze – Assumere come progetto politico l’istanza di uscire dal sistema di dominio e di guerra, comporta la necessità e la possibilità delle più varie ed estese alleanze. Esse sono dettate non solo dalla opportunità politica e dalle condizioni per l’esercizio del potere in una società democratica, ma dal fine stesso perseguito, che per sua natura non può che risultare dall’incontro e dalla cooperazione di forze diverse. Qui il metodo e il fine si implicano e si sovrappongono.
Il principio su cui fondare la ricerca delle alleanze è che rappresentando il passaggio da un sistema di guerra ad un sistema di pace una rivoluzione del tutto nuova, le classi che storicamente hanno realizzato le precedenti rivoluzioni, quella borghese e quella proletaria, non possono essere considerate m se stesse come le sole o le più naturalmente preordinate a realizzare la nuova. Essa ha bisogno di una coalizione di forze molto più larga, che attraversi e compenetri le vecchie classi, del resto già entrate in una profonda mutazione in seguito all’evolversi della società industriale. Tutte le forze disposte a non difendere con la guerra il sistema di guerra, disposte a condurre l’impresa di una società nuova non fondata sul dominio, sono potenzialmente atte a convergere in una alleanza capace di misurarsi con le forze e con i poteri che resteranno attestati nella caparbia difesa del passato.
Così qualificandosi l’alternativa, la costruzione delle alleanze potrà essere la più ricca e articolata. Essa non solo solleciterà le forze tradizionali, socialiste laiche e cattoliche, i loro partiti e movimenti, i sindacati, a concorrere a tale prospettiva, ma solleciterà e incrocerà i nuovi soggetti storici del cambiamento, le donne, i giovani, i credenti nelle loro varie articolazioni e comunità, i movimenti per la pace, i difensori dell’ambiente, i movimenti di emancipazione, di solidarietà internazionale, di volontariato.
Molte di queste forze non sono riconducibili all’uno o all’altro fronte della vecchia dialettica rivoluzionaria corrispondente all’antagonismo tra il capitalismo e la sua negazione. Esse non negano né ignorano tale dialettica, ma vi sono o credono di esservi estranee; semplicemente si collocano altrove. La nuova rivoluzione dell’uscita dal sistema di guerra non può fare a meno di tali forze, anzi vi troverà probabilmente i maggiori protagonisti.
Ciò vale soprattutto per ciò che sta emergendo fuori del mondo occidentale e di quello del socialismo reale, nelle classi sfruttate ma in via di liberazione del Terzo mondo, nei movimenti per l’indipendenza nazionale, nelle comunità di credenti sottratte all’alienazione e rinate come soggetti in virtù di una fede che la loro teologia ha reinterpretato come liberazione, nelle borghesie anticolonialistiche dell’America Latina, nella rivendicazione di dignità e parità delle popolazioni nere dell’Africa, nel grande travaglio in cui si dibatte l’Asia tra nuovo e antico, da cui è destinato forse a nascere un moderno diverso da ciò che è stato moderno per noi.
L’esistenza di questo nuovo e articolato soggetto rivoluzionario, oggi bloccato e schiacciato dal sistema di guerra proteso a conservare il mondo com’è, dice che il problema delle alleanze di una forza intenta al superamento del sistema di guerra in Italia, non può essere ristretto al quadro solamente italiano. Ogni maturazione di coscienza, ogni passo avanti sulla via d’uscita dal sistema di guerra, ogni liberazione da un dominio, dovunque accadano, sono un passo avanti di liberazione e di pace anche per noi. Pertanto ogni vicenda, ogni episodio, ogni dramma in cui si manifesti una resistenza, un impegno di lotta contro il sistema di dominio e di guerra, deve essere oggetto della più grande attenzione, della più grande vigilanza, e di una azione politica appropriata; una vigilanza che deve saper cogliere i punti decisivi in cui volta per volta si gioca l’alternativa tra sistema di pace e sistema di guerra; che sappia vedere ad esempio che se ieri il punto critico di tale alternativa fu l’installazione dei missili in Europa, oggi una invasione americana del Nicaragua e il patrocinio a dittature di sangue in America Centrale, sarebbe una sconfitta ancora maggiore per la pace degli stessi euromissili; che sappia vedere come nel sanguinoso regime dell’apartheid in Sudafrica, che tutti formalmente condannano, non fa che manifestarsi nella sua ultima e nuda logica quello stesso sistema di guerra che dovunque traduce i rapporti politici, economici, sociali, in rapporti di forza e di dominio, e che alimenta e preserva lo scandalo dei palestinesi ancora senza patria, dell’Afghanistan ancora senza indipendenza, della Cambogia ancora senza accoglienza nella comunità internazionale dopo il sofferto genocidio, del Libano sempre senza pace, di democrazie e Stati europei senza vera sovranità, e di popoli interi senza pane, per non citare che alcune delle ingiustizie presenti il cui assortimento, la cui enumerazione, la cui imputazione alle responsabilità dell’uno o dell’altro blocco possono essere variati a piacere, nello sterile gioco delle ritorsioni polemiche e delle propagande, ma che tutte sono prodotte e perpetuate da un rapporto sistematicamente fondato sul dominio e garantito dalla guerra.
Per una forza operante in Italia, peraltro, le alleanze più vicine e prioritarie sono, oltre quelle da stabilire nel Paese, quelle da intrecciare in Europa e in Occidente; qui vi sono enormi energie e forze che sono forzatamente incluse nel sistema di guerra ma non sono ad esso omogenee e sono anzi disponibili a uscirne. In questa direzione, sarà sempre più importante stabilire un rapporto politico con la parte più viva della società americana, nutrita agli ideali della politica liberal e di una universale vocazione dei popoli all’eguaglianza e alla giustizia; sarà necessario approfondire i contatti con la socialdemocrazia tedesca che sempre meglio comprende, dopo essere uscita dall’infatuazione missilistica, come il destino della Germania si giochi sulla pace dell’Europa; occorrerà estendere i legami con le altre sinistre democratiche europee; si tratterà di riconoscere il ruolo che le Chiese di diversa denominazione, all’Est come all’Ovest, negli Stati Uniti come in Europa, nel Nord come nel Sud del mondo, quando non siano suddite del potere e messe a tacere da coercizioni esterne ed interne, possono esercitare nella critica alla vigente condizione di guerra e nella promozione di un sistema di pace.

L’urgenza della causa – L’uscita dal sistema di dominio e di guerra non è in verità un’impresa che possa essere descritta o programmata nelle poche pagine di un documento politico. È l’impresa di più generazioni, è la stazione d’arrivo di un processo in cui dovrà essere impegnata tutta una fase della storia umana. Molte cose, per fare andare avanti questo processo, si richiederanno all’elaborazione politica, alla ricerca teorica, all’invenzione giuridica, all’innovazione etica, e soprattutto all’esperienza viva della gente che vorrà impegnarsi e militare in questa costruzione e in questa lotta. E sarà lo sviluppo stesso del cammino e della lotta a suggerirne i passaggi, a dettarne le condizioni. Ma occorre che delle leadership politiche, radicate nella storia del Paese, credibili per la loro integrità e accreditate dal loro legame con le classi popolari, dichiarino l’urgenza della causa, indichino la direzione, partano per prime. Questo il senso del nostro appello ai comunisti italiani.

I firmatari della lettera

Raniero La Valle e Clandio Napoleoni, senatori; Adriano Ossicini,vicepresidente del Senato; sen. Boris Ulianich; Dalmazio Mongillo, domenicano, professore di teologia; Italo Mancini, professore di filosofia; sen. Mario Gozzini; Domenico Gallo, giudice al Tribunale di S. Angelo dei Lombardi; Salvatore Senese, membro del Consiglio superiore della Magistratura e del Tribunale permanente dei popoli; sen. Nicola Loprieno; on. Pierluigi Onorato; Linda Bimbi segretaria generale della Fondazione Internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli; Pasquale Colella direttore de «Il Tetto»; padre David Maria Turoldo, Abbazia di S. Egidio, Sotto il Monte; Enrico Chiavacci, parroco, professore di teologia morale; on. Piero Pratesi, direttore responsabile del «Nuovo Spettatore Italiano»; padre Camillo de Piaz, Milano; Centro Studio Ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte; padre Ernesto Balducci, Badia Fiesolana; Lodovico Grassi, direttore di «Testimonianze»; Giulio Girardi, Professore di filosofia politica, membro del Tribunale permanente dei popoli; Giancarlo Zizola, giornalista; sen. Tullio Vinay, pastore della Chiesa Valdese; Pierluigi Di Piazza, parroco, Comitato della Pace di Udine; Luigi Sartori, professore di teologia, Comitato Unitario per il Disarmo e la Pace, (Cudip), di Comiso; Nino Fasullo, direttore di «Segno», Palermo; Rosario Giouè, parroco, Palermo; Giacomo Vaiarelli, insegnante, Palermo; Teresa Costa, insegnante, Comitato della Pace di Iglesias; Giuseppe Melis e Pierina Chessa, insegnanti, Iglesias; Silvana Craig, insegnante, Iglesias; Mario Porcu, Cagliari; Margherita Zaccagnini, Università di Cagliari; sen. Paolo Brezzi, sen. Elia Lazzari, Giovanni Franzoni, redattore di «Com-Nuovi Tempi»; Augusta De Piero Barbina consigliera regionale del Friuli Venezia Giulia; Rinaldo Fabris, biblista; Paolo Del Zotto, consigliere comunale, Udine; Mario Banelli, consigliere provinciale, Udine; Franco Saccavini, parroco, Comitato della pace di Udine; Alberto Maritati, giudice al Tribunale di Bari; Emilio Marazano, giudice al Tribunale di Bari, Francesco Mandoi, sostituto procuratore della Repubblica di Brindisi; Ada Congedo, pretore a Bari; Luigi De Marco, presidente del Tribunale dei minori di Bari; Salvatore Di Pasquale, Preside del Liceo Scientifico di Ragusa; on Ettore Masina: Wilma Occhipinti Gozzini, teologa; Saro Di Grandi, consigliere provinciale, Ragusa; Comunità Cristiana ex FUCI, Ragusa; Giuseppe Miccichè, insegnante, Ragusa, Giuseppe Borrè, consigliere di Cassazione e presidente di Magistratura Democratica; Giuseppe Soresina, pretore del lavoro a Firenze; Vincenzo Accattatis, giudice al Tribunale di Pisa e vicepresidente dell’Associazione Nazionale Magistrati; Gennaro Maresca, pretore a Napoli; Alfredo Gari, giudice al Tribunale di Caltagirone; Pierluigi Zanchetti, sostituto procuratore della Repubblica a Torino; Ennio Cillo, pretore di Otranto; Matilde Cammino, giudice al Tribunale di Roma; Luciano Martini, Università di Firenze; Giovanni Ferrito, professore di filosofia, Ragusa; Mario Pavone, professore di filosofia, Ragusa; Severino Dianich parroco, teologo; Emanuele Villa, sociologo, Palermo; Renzo Bonaiuti, direttore didattico, Firenze; Enrico Peyretti, direttore di «Il Foglio», Torino; Giuseppe Reburdo, consigliere regionale del Piemonte; Giovanni Benzoni, Venezia; Giulio De La Pierre, consigliere comunale di Ivrea; Giorgio Iannuzzi, assessore al comune di Ivrea; Teresa Gentile Lo Giudice, consigliera regionale della Sicilia; Angelo Tartaglia, professore di fisica al Politecnico di Torino, consigliere comunale di Torino; Franco Prina, responsabile del gruppo «Abele», consigliere comunale di Torino; Carlo Baffaert, architetto, consigliere comunale di Torino; Aldo Bodrato, professore di filosofia, Torino; Franco Leonori, direttore di «Adista»; Giovanni Avena, redattore-capo di «Adista»; Paolo Barile professore di diritto costituzionale, Firenze; Fabrizio Mastrofini, pubblicista, Roma; Giovanni Burzio, assessore alla provincia di Savona; Anna Maria e Gianni Gennari, Roma; Piero Barbaini, direttore dell’Istituto di storia dell’Università di Parma; Giannetto Cavasola, avvocato, Roma; Gianni Novelli, sacerdote, Centro interconfessionale per la pace, Roma; Massimo Vanni, impiegato, Ariccia; Paolo Natali, ingegnere, Bologna; Massimo Giuliani, insegnante di religione, Istituto Berchet, Milano; Carlo Galeotti, rete Radiè Resch, Viterbo; Luigi Adami, parroco, membro Commissione Diocesana Justitia et Pax, S. Zeno di Colognola (Verona); Luciana Urbini, pensionata, Centro interconfessionale per la pace, Roma; Fabrizio Truini, operatore culturale, vicepresidente Centro interconfessionale per la pace, Roma; Francesco Zanchini, professore universitario, presidente del Centro interconfessionale per la pace, Roma; Ornella Stazi, insegnante, Centro interconfessionale per la pace, Roma; Giorgio Battistacci, presidente di sezione di Corte d’Appello, Perugia; Enzo Rosini Università di Roma; Lidia Giancola, professore universitario, Roma; Franco Marton, comparroco parrocchia Immacolata, Treviso; Piero Di Giorgi, professore universitario, Roma; Enzo Ciammaglichella, direttore de «Il Dibattito», Chieti; Valerio Dalle Grave, sindacalista Cisl, Casio Valtellino (Sondrio); Daniela Maria Gandolfo, studentessa lavoratrice, Roma; Franca Bagnoli Pasqualini, insegnante filosofia e pedagogia, Pescara; Lorenzo Dani, sociologo, Gazzola (Verona); Marco Driussi, consigliere circoscrizionale, Udine; Giovanni Olivieri, parroco e insegnante, Rieti; Franco Mori, cassintegrato Piaggio, direttivo Fiom, Pisa; padre Eugenio Melandri, direttore «Missione oggi», Parma; Ottavio Contolini, consigliere regionale del Veneto, Verona; .Adriano Declich, giornalista Rai, Roma; Giuseppe Sarzi Amadè, impiegato, Casalmaggiore (Cremona); Serafino Barberi, parroco, Samolaco (Sondrio); Carmine Di Sante, teologo, Roma; Massimo Preda, impiegato, Milano; Simeone Domenico, studente, Sarezzo (Brescia); on. Carla Ravaioli, ex parlamentare, giornalista, scrittrice, Roma; Ottavio Di Grazia, teologo, Avellino; Paolo Ferrari, consigliere comunale di Verona; Paolo Corbetta, insegnante, Milano; Eugenio Licchetta, sacerdote, insegnante Liceo scientifico, Tricase; Riccardo de Ghantuz Cubbe, studente, Roma; Enrico Paolucci, segretario del segretariato ex-allievi «Servi di Maria», Milano; Luisa Randi, insegnante, Porto Garibaldi (Ferrara); Franco Donati, insegnante, Porto Garibaldi (Ferrara); Umberto Garavaglia, operaio in pensione, della rete Radiè Resch, Magenta; Centro Mondialità, Sviluppo Reciproco, Livorno, Gianni Chiesa, prete operaio, Bergamo; Giacomo Cumini, prete operaio, Bergamo; Bruno Ambrosini, prete operaio, Bergamo; Elia Berardelli, prete operaio, Bergamo; Battista Migliani, operaio, Bergamo; Carlo Rubini, della redazione di «Esodo», Venezia; Roberto Leoni, studente universitario, Bergamo; Renato Lombardo, impiegato, non violento, Palmi, Reggio C.; Associazione Casa per la Pace, Molfetta (Bari); Ferrero Battani, parroco di Valdibuse (Pistoia); Francesco Marangon, segreteria obiezione di coscienza, Gorizia; Maria Menin, docente di teologia, Roma; Michele Di Pasquale S. Severo, (Foggia); Associazione «don Lorenzo Milani», S. Severo, (Foggia); Angela Maria Pastorino, casalinga, Salerno; Romolo Bellatreccia, studente, segretario Pci, e consigliere comunale Ronciglione (Viterbo); Paola Valenzano, assistente sociale iscritta al Pci, Ronciglione (Viterbo); Peppino Orlando, teologo laico, Genova; Livia Nizzi, insegnante, Foligno; prof. Mario Porzio, ordinario diritto bancario, università di Napoli; prof. Ugo Leone, associato di geografia economica, università di Napoli; dott. Fabio Ciaramelli, ricercatore, università di Napoli; dott. Ugo Olivieri, ricercatore, università di Napoli; dott. Saverio Festa, ricercatore, università di Salerno; dott. Ugo Santinelli, ricercatore, università di Salerno; cons. Nicola Colaianni, pretore, Bari; Maurizio Cancelli, pittore, Foligno; Carlo Carretto, fratel Tommaso, e i Piccoli fratelli della comunità di Spello (Perugia); Giovanni Negrotto, Spello; Maria Grazia Di Giulio, vicepresidente diocesano settore giovani Azione cattolica, Brindisi; Giancarlo Canuto, vicepresidente diocesano settore giovani Azione Cattolica, Brindisi; Vincenzo Violanti, funzionario del ministero Finanze, Roma, Eleonora Moro, Roma; Mario Gritti, agente di cambio, Brescia; Laura Colombo Mandrino, casalinga, Alessandria; Giancarlo Mandrino, sindacalista, Alessandria; sacerdote Attilio Fontana, insegnante di musica, Comacchio (Ferrara); Mafalda Rizzi, assistente alla scuola materna, Migliaio (Ferrara); Giovanna Maria Falconi, insegnante, Pattada (Sassari); Antonio Vermigli, Rete Radiè Resch, Quarrata (Pistoia); Sergio Moresco, insegnante Pianezze (Vicenza); Anna Bontorin, insegnante, Pianezze (Vicenza); Maurizio Roggia, studente, Pianezze (Vicenza); Daniela Caron, impiegata, Pianezze (Vicenza); Giuseppe Rizzo, operaio, Pianezze (Vicenza); Lorena Rizzo, operaia, Pianezze (Vicenza); Maria Assunta Bertolio, insegnante, Molvena (Vicenza); Nadia Moresco, impiegata, Mason, (Vicenza); Antonio Bedin, fisioterapista, S. Pietro in Gu, (Padova); Nadia Barbieri, assistente all’infanzia S. Pietro in Gu, (Padova); Mauro Messeri, militante Acli e sindacalista Cisl, Firenze; Mauro Severoni, presidente provinciale Acli, Terni; Maria Teresa Messidoro, Comitato Salvador, Torino; Carlo Negrini e Annamaria Rebecchi, Rete Radiè Resch, Sermide, (Mantova); prof. Salvatore Panico, ordinario di storia e filosofia Liceo scientifico Tricase e attivista Pci; prof. Carlo Cerfeda, ordinario storia e filosofia liceo scientifico, Tricase; prof. Fulvio De Giorgi, ordinario storia e filosofia liceo scientifico, Tricase; Giampiero Cioffi Baffoni, diplomato erborista, Firenze; Fernando Cancedda, giornalista Rai-Tg2-Roma; Claudio Attori, impiegato, Mason (Vicenza); Massimo Gatti, studente universitario, Agliate (Milano); Franco Ferrara, Gioia del Colle (Bari); Ninì Menichetti, Perugia; Michele Di Schiena, magistrato, Brindisi; Salvatore Lezzi e Gabriello Greco, Presenza Democratica, Brindisi; Adriana Grippiolo, giornalista, Milano; Rosanna Grippiolo Borsalino, responsabile di «Rinascita» per l’Emilia Romagna; Ruggero Simonato, insegnante, Summaga (Venezia); Giovanni Rompianesi, biologo, Modena; Imelda Rosa Pellegrini, insegnante, Portogruaro (Venezia); Gianmaria Gabusi, mpiegato, Brescia; Armido Rizzi, teologo, Fiesole; Giacomo Maria Cannizzo, preside Liceo scientifico, Roma; Crapanzano Roberto, religioso, Roma; Barbisan Camillo, Monastier (Treviso); Comunità dell’Isolotto, Firenze; Giulia Brandolìsìo, Pierantonio Caseri, Pasquale Emanuele, Alberto Gumagalli, Sandra Nava, Teresa Romeo, Italo Tagliabue, del gruppo Ferruccio Parri della Sinistra indipendente, Bergamo; Ignazio Benzano, direttore «Cristiani a Genova»; Giuseppe Rolandi, funzionario Enea, Alessandria; Antonio Pozzi, Milano; Andrea Curtetti, impiegato, Moncalieri; Giovanni Benincà, consigliere provinciale Acli, Breganze (Vicenza); Teresa Sarcinella, studentessa, Cremona; Giovanni Trapani, libraio, Roma; Mario Delpiano, sacerdote, pedagogista, Roma; Francesco Ottoni, studente, Roma; Pasquale Spagnoletti, preside scuola media, Roma; Rossana Pegeri, disoccupata, Roma; Luigi Tribioli, impiegato, Ferentino (Roma); Pietro Marinelli, pensionato, Ferentino (Roma); Fernanda Liberi, impiegata, Cecchina (Roma); Gianni Palumbo, Lega per i diritti dei popoli, Roma; Antonio Polo, impiegato, Roma; Aldo Curiotto, operatore sociale, Roma; Franca De Benedetti, studentessa, Roma; Maria Concetta D’Ippolito, operatrice sociale, Roma; Riccardo De Pietri, operatore psichiatrico, Reggio Emilia; Gabriele Pirè, coordinatore CpS Puglia, Bari; Florenzi Paolo, Comitato per la pace, Quarrata (Pistoia).
(Le firme sono in ordine di apposizione)