Perché il mondo continui ci dobbiamo parlare, ci dobbiamo raccontare delle cose. Magari non le “grandi narrazioni”, come sono state definite le ideologie del secolo scorso, che pretendevano dire tutto. Ma delle cose importanti, che servano, e ognuno ha da dire la sua.
Dobbiamo a Carl Schmitt la storia che ci è stata raccontata da Taubes, la storia di un Paolo di Tarso rimasto ebreo, ma proprio per ciò fondatore del nuovo popolo dei non eletti, degli scartati, degli esuberi.
Jacob Taubes, nato a Vienna da un’antichissima famiglia di rabbini, e “consapevolmente ebreo fin nelle radici”, andato esule a Zurigo nel 1936 per sfuggire alle persecuzioni naziste, ha poi vissuto ed insegnato a New York, a Gerusalemme, Harvard, Princeton e, dal 1961 alla Freie Universität di Berlino, per essere infine sepolto nel cimitero ebraico di Zurigo quando morì il 21 marzo del 1987.
Il suo rapporto con Carl Schmitt è stato un rapporto di attrazione-repulsione. Era attratto dalla sua dottrina di “apocalittico della controrivoluzione”, come lui lo definiva. Schmitt era stato infatti quello che aveva alzato l’argine del diritto e delle istituzioni contro il governo del caos, quello che aveva visto nell’Impero cristiano medioevale dei re germanici – e per estensione in ogni potere costituito – il katékon di cui si parla nella seconda lettera ai Tessalonicesi, cioè la forza frenante destinata a trattenere e ad impedire per un certo tempo la distruzione del mondo; era il giurista che guardava la storia a partire dalla fine; “molto presto” era apparso a Taubes come “una incarnazione” del Grande Inquisitore di Dostoewskij (ragione contro visione): era questo che, sia pure per contrasto, affascinava Taubes il quale invece si considerava un “apocalittico della rivoluzione”. Ma nello stesso tempo gli ripugnava la compromissione di Schmitt col nazismo, anche se Taubes gli riconosceva di aver ripercorso nella sua storia personale, quasi come in un’allegoria, quei tre stadi del rapporto col tiranno icasticamente formulati dai teologi medioevali e riproposti dallo stesso Schmitt come sempre attuali: Tyrannum licet adulari (è lecito adulare il tiranno); tyrannum licet decipere (è lecito ingannarlo); tyrannum licet occidere (è lecito ucciderlo): ciò che secondo Taubes egli aveva fatto, prima con l’offrire il supporto della sua dottrina al regime, poi con l’ingannarlo “attraverso prese di distanza che rimangono poco chiare”, e infine col partecipare a gruppi che ne meditavano il rovesciamento [1].
In ogni caso Taubes a lungo si rifiutò di incontrare Schmitt, benché ogni tanto, dopo un primo indiretto contatto epistolare, ricevesse estratti, libri con dedica e appunti da parte sua. Taubes sentiva nelle sue carni di essere tra coloro che erano stati eletti da Hitler “a nemico assoluto”, e perciò dallo stesso Schmitt “marchiati come nemici”. A dividere lui, “ebreo dichiarato”, dal giurista tedesco che aveva ballato coi lupi, c’era “l’ombra del suo antisemitismo attivo”, che però suscitava in Taubes soprattutto l’assillo a “capire ciò che era ‘propriamente’ accaduto”. Finché un giorno Taubes si disse: “Ascolta Jacob, tu non sei il giudice, proprio in quanto ebreo non sei il giudice”. In quanto ebreo non gli era stata lasciata scelta di fronte al nazismo; ma, senza scelta, poteva giudicare gli altri? Così andò a Plettenberg[2] a trovare Schmitt. E lì – ha poi scritto – “ho avuto le discussioni più tempestose che abbia mai fatto in lingua tedesca” [4]. Più tardi, il 18 settembre 1979, da Parigi, dove spesso teneva dei seminari alla Maison des Sciences de l’homme, scrisse a Schmitt una lettera per ringraziarlo della franchezza dei colloqui, per spiegargli perché si “tratteneva dal formulare una condanna”, e per dirgli molte altre cose [5]. Pochi giorni dopo Schmitt lo chiamò al telefono a Parigi e gli disse: “Ho letto e riletto la sua lettera, sto molto male. Non so quanto mi resta da vivere, venga subito”. Così Taubes prese il primo treno per Plettenberg, ed andò da lui [6]. Furono, come riferisce Taubes, dei colloqui “sconvolgenti”. In quegli incontri, leggendo insieme i capitoli 9-11 della Lettera ai Romani, Taubes parlò a Schmitt dell’idea che egli si era fatta di Paolo.
Era molto strano che un filosofo ebreo, “ebreo fin nelle radici” e figlio di un rabbino si occupasse di Paolo. È lui infatti il segno di contraddizione tra ebraismo e cristianesimo. È molto raro trovare tra gli ebrei una considerazione, un tentativo di capire chi e che cosa veramente Paolo sia stato. Come osserva lo stesso Taubes, “gli studi ebraici su Paolo sono piuttosto modesti”: è fuori discussione il fatto che “Paolo non sia ancora stato effettivamente recepito dalla storia della religione ebraica” [7] . Taubes prende invece Paolo molto sul serio, e lo rilegge da ebreo, dall’interno della tradizione ebraica, e più esattamente nella “logica messianica”; lo stesso greco di Paolo, lingua in cui sono scritte le sue lettere, non si può capire, dice, “con l’orecchio del grecista”, sembra più jiddish che greco.
La tesi fondamentale di Taubes è che Paolo non è un “convertito” dall’ebraismo, non di questo si sarebbe trattato nel famoso episodio di Damasco; si è trattato invece di una chiamata, di una vocazione, come quella di un altro grande profeta ebreo, Geremia, che, prima ancora di nascere era stato “stabilito profeta delle nazioni” (Ger. 1,5); è lo stesso Paolo, osserva Taubes, che si presenta come “chiamato” ad un compito, prescelto per vocazione ad essere apostolo (infatti non lo era, come gli altri dodici), “inviato dagli ebrei ai pagani”, restando, pertanto, ebreo.
Ma qui c’è un dramma. Perché ciò che c’è di mezzo è la fondazione e la legittimazione di un nuovo popolo di Dio, che non è più quello che discende da Abramo secondo la carne, non è più quello dei consanguinei di Paolo. Cioè si ripresenta il dramma che è stata l’esperienza fondamentale della Torah, il dramma del minacciato passaggio della elezione di Dio dagli ebrei agli altri popoli: il popolo eletto che non è più il popolo eletto. È quello che avvenne nel deserto, vicino al Sinai, quando il popolo si ribellò, rimpianse di essere uscito dall’Egitto, si fece un vitello d’oro e lo adorò al posto di Dio; e Dio indignatosi giurò a Mosè che lo avrebbe distrutto, e avrebbe fatto di Mosè un’altra nazione “più grande e più potente”. È il giorno terribile in cui il popolo rischiò di perdere il suo bene più grande, la predilezione e la compagnia di Dio; ma Mosè resistette a questa decisione, rifiutò la nuova investitura, e “implorò il Signore” di desistere dalla sua ira, di non fare il male che aveva minacciato (Es. 32-34; Num. 14-15). Taubes cita il Talmud, e dice che il termine ebraico tradotto come “implorare” significa anche “sciogliere”: cioè Mosè “non solo implorò, ma anche compì il rito dello scioglimento di Dio dal giuramento della distruzione. Dio dice infatti: come posso tornare indietro? L’ho giurato. E Mosè replica: ci hai insegnato che i giuramenti si possono sciogliere”.
Nei suoi colloqui con Schmitt, Taubes ha evocato i riti che gli ebrei ogni anno compiono nel giorno dell’espiazione, Jom Kippur, in memoria di questi eventi. Una celebrazione che “è percorsa da questo brivido”. La sua ipotesi è che la sera dello Jom Kippur trasponga nel rituale la controversia tra Dio e Mosè. Come dice il Talmud, “il giorno stesso perdona”. Nel rito tutti gli ebrei, “dalle comunità dello Yemen fino a quelle della Polonia”, ripetono per tre volte una formula, che può sembrare incomprensibile, in cui essi si pentono “di tutti i voti, le rinunce, i giuramenti, gli anatemi” o di ogni altra espressione di tali voti, “in modo che siano tutti sciolti, rimessi e condonati, nulli, senza validità e inesistenti. I nostri voti non sono voti, le nostre rinunce non sono rinunce e i nostri giuramenti non sono giuramenti”. Si tratta solo di “annullare giuramenti e voti pronunciati in modo affrettato”, come ha scritto, accomodante, Michael Sachs, “un ebreo tedesco assimilato” che ha tradotto e commentato queste preghiere “nel XIX secolo borghese”? È pura follia, dice Taubes, “credere che un brivido percorra un intero popolo fin nell’intimo della sua anima solo perché sono in gioco un paio di voti affrettati”. In realtà ciò a cui allude la preghiera è lo scioglimento di Dio dal giuramento che lo impegnava al ripudio del suo popolo. È questo che aveva fatto Mosè, cosicché “il Signore disse: ho perdonato secondo le tue parole” (Num., 14, 20).
Ora, secondo Taubes, Paolo si trovò di fronte allo stesso problema di Mosè, quando di nuovo il popolo aveva peccato rifiutando il Messia che gli era giunto; ma mentre Mosè rifiutò di dare inizio a un nuovo popolo che prendesse il posto di quello di Israele, Paolo accettò di farlo. La sua “vocazione” era appunto una chiamata a far questo, a passare il testimone dagli ebrei ai pagani. Tuttavia con una differenza fondamentale. Per Mosè si trattava di assistere a una revoca delle promesse di Dio, e alla distruzione del popolo eletto. Per Paolo invece la promessa di Dio al popolo d’Israele è irrevocabile, non si tratta di trasferire l’elezione da un popolo a un altro, sia pure più grande, ma di estendere l’elezione a tutti i popoli in forza non più di un’obbedienza alla legge ma di una “obbedienza alla fede”; e la dialettica interna di questa posizione è quella espressa nel cap. 9 della lettera ai Romani, quella cioè di volgere gli stranieri alla fede per “ingelosire” Israele; e quando a causa dell’ “indurimento” di una parte d’Israele (“essi inciamparono”, ma non per cadere per sempre, Rom. 11, 11) sarà entrata la totalità delle nazioni, allora tutto Israele (pás Israel) sarà salvato (Rom. 11,25).
Leggendo insieme questo capitolo della lettera ai Romani Taubes e Schmitt arrivarono alla frase, riferita agli ebrei: “Quanto al vangelo essi sono nemici”. Schmitt sapeva bene cosa vuol dire “nemici”; senonché il testo prosegue: ”nemici per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione sono carissimi a causa dei padri; irrevocabili sono infatti i doni e la chiamata di Dio”. Taubes rimproverò a Schmitt di non cogliere questa dialettica di Paolo, questa sua fedeltà all’ebraismo, e di aver letto questo testo senza coglierne il senso essenziale, ma di essersi fatto piuttosto portavoce della tradizione popolare dell’antisemitismo presente in millecinquecento anni di storia cristiana, che egli negli anni 1933-36 aveva finito per arricchire di una “teo-zoologia razzista”. “Lui – racconta Taubes – il più grande giuscostituzionalista, accolse queste parole come un insegnamento. ‘Non lo sapevo!’ ” [8] .
E alla fine Schmitt gli disse: “Taubes, prima di morire, racconti anche a qualcun altro queste cose” [9]. Questa è l’origine del seminario che Jacob Taubes tenne al Centro studi della comunità evangelica di Heidelberg dal 23 al 27 febbraio 1987, nemmeno un mese prima di morire, quando non aveva più nemmeno la forza di restare in piedi, e che si trova ora trascritto nel libro di Adelphi, La teologia politica di San Paolo: la storia di un Paolo che è ebreo anche quando predica il Signore risorto.

[1] Per tutto questo v. Jacob Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, cit.
[2] Plettenberg, nel Sauerland, è la città dove Schmitt era nato nel 1888, e dove ha vissuto dopo la seconda guerra mondiale fino alla morte, avvenuta nell’aprile del 1985.
[3] Taubes, “Lettera a Carl Schmitt”, in In divergente accordo, cit, p. 36.
[4] Ivi p. 49.
[5] Idem, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 20.
[6] Idem, In divergente accordo, cit. p. 10.
[7] Idem, La teologia politica…, pp. 25 e seg. Da questo testo sono tratte tutte le citazioni seguenti.
[8] Ivi, pp. 99-100.
[9] Ivi, p. 21.