Da una “lectio magistralis” tenuta da Walter Tocci il 14 ottobre ai volontari delle Caritas romane in occasione della Giornata Mondiale della Lotta alla Povertà.
La dignità è il fondamento giuridico dei diritti poiché è scritta in Costituzione. In una delle sue ultime lezioni Stefano Rodotà ha usato la parola addirittura per scandire una terza epoca del costituzionalismo moderno. Dopo l’Homo hierarchicus dell’ancien régime e l’Homo equalis del Novecento, dal dopoguerra siamo entrati nel costituzionalismo dell’Homo dignus. La parola, infatti, si trova esplicitamente nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e nell’incipit della Costituzione tedesca – La dignità umana è intangibile – come monito per l’avvenire dopo l’orrore dell’Olocausto. Ma è interessante notare che lo stesso concetto di intangibilità umana ritorni, in condizioni storiche molto diverse, nel costituzionalismo contemporaneo, ad esempio nella Carta di Nizza, come contenimento dei poteri pervasivi della tecnica e dell’economia che tendono a invadere la vita umana. La dignità diventa il nuovo principio di resistenza della persona di fronte alle sfide del postumano.
Ma è nella Costituzione italiana che la parola dignità esprime il meglio di sé. E lo fa in un modo originale e poco celebrato, quasi senza apparire, senza prendere le sembianze di un principio assoluto, ma mettendosi al servizio di altri principi costituzionali al fine di renderli cogenti.
Per scoprire questi rimandi reconditi dovremmo riprendere in mano la Carta, rileggerla con curiosità nuova, senza la trascuratezza e la retorica degli ultimi tempi. Si dovrebbe prendere esempio dai sacerdoti che tutte le domeniche dal pulpito leggono e commentano il Vangelo di fronte all’Assemblea. I fedeli conoscono la Buona Novella, non è affatto una sorpresa, ma quella lettura suscita ogni volta nuove riflessioni spirituali e impegni sociali.
Allo stesso modo dovremmo prendere l’abitudine di iniziare ogni assemblea civile, incontro pubblico, manifestazione popolare con la lettura di un articolo della Carta. Proviamo a farlo oggi qui con uno degli articoli più dimenticati, il 36.
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Non si può non ammirare la chiarezza di questo testo composto di parole semplici e profonde. Nessuna legge sul lavoro degli ultimi venti anni ha cercato di raggiungere tale chiarezza e tutte si sono prodigate per indebolire quei principi. Anche da qui si vede che è la Costituzione per l’avvenire. È attuale proprio perché la sua inattualità orienta il nostro presente verso un diverso avvenire.
La nostra parola appare solo alla fine dell’articolo con l’aggettivo dignitosa, che apparentemente non aggiunge granché, poiché il senso della norma giuridica è già chiarito dalle parole precedenti. Eppure, in questo contesto l’aggettivo vuol dire che il lavoro di cui si parla non è solo un fatto economico, anzi riguarda una dimensione fondativa della società e della persona. Quindi l’articolo 36 richiama e chiarisce implicitamente l’articolo 1. È come se l’incipit costituzionale, La Repubblica fondata sul lavoro, pur non utilizzando la parola dignità, ne contenesse il significato.
E allo stesso modo opera l’articolo 41, quello che voleva cancellare il ministro Tremonti per farsi perdonare dall’establishment europeo lo sperpero nei conti pubblici. Esso stabilisce che l’iniziativa economica trova un limite nella «libertà e dignità umana». La dignità, quindi, rivela che sopra il mero interesse economico esiste una superiore sovranità, il cui primato non può che scaturire, come nel caso precedente, dall’articolo 1 della Repubblica fondata sul lavoro.
Inoltre, il mirabile articolo 3 sancisce la «pari dignità sociale» dei cittadini, senza distinzioni di razza, di censo, di genere. Questo primo comma è sempre stato considerato come il principio liberale dell’eguaglianza che nega ogni forma di discriminazione, mentre il secondo comma del «rimuovere gli ostacoli» è stato considerato il principio sociale dell’eguaglianza, che si afferma nella sostanza dei rapporti tra i cittadini. Ma è la parola dignità, non a caso accompagnata dalla denotazione «sociale», a creare un ponte tra i due principi fondamentali e a reggere l’unità costituzionale dell’articolo 3.
Da tutto ciò discende la particolare attitudine della dignità nel connettere principi costituzionali diversi – libertà, eguaglianza e sovranità – rinunciando a esprimere un proprio significato determinato.
La dignità non è né una supernorma, né un diritto fondamentale, ma è la forza connettiva della Carta. La pienezza della dignità non è in sé, ma per gli altri. Se immaginassimo la dignità come una persona sarebbe come il volontario che senza vantarsi dona un senso alla vita delle persone.